Gli ultimi due giorni mi hanno sconquassato: non solo per la distanza percorsa, ma anche per le prove da superare contro gli elementi (vento, acqua, sole). Ieri i chilometri lungo l’acquedotto sono stati monotoni e pesanti, e dopo la pausa pranzo abbiamo dovuto camminare altri sedici chilometri. Dopo tutto ciò, chiunque penserebbe di aver diritto a un po’ di riposo, ed è stato questo il feeling una volta arrivati al campo: qualche albero, un ruscello vicino e la comodità dell’acqua subito disponibile, e soprattutto finalmente fuori dall’area più sferzata dal vento – questa zona del deserto del Mojave è infatti tappezzata di turbine eoliche più che da pannelli solari.

Purtroppo, era tutto solo un’illusione da fiaba Disney. Di punti comodi (cioè in piano o quasi) praticamente non ce n’erano, e il terreno era duro e sassoso. La stanchezza della giornata mi convince a dormire “alla cowboy”, ossia senza tenda. Ma non appena finisco di preparare la mia postazione, il vento ci ricorda che non è andato da nessuna parte e ricomincia a soffiare a folate abbastanza forti. Cerco così un posto alternativo dove piantare la tenda e lo trovo una ventina di metri risalendo il fiume: perfettamente piatto e su terreno di ghiaia grigia fine, in cui i picchietti entrano come coltelli nel burro e, una volta dentro, tengono alla grande. Soddisfatto, mi do una sciacquata approssimativa, soprattutto ai piedi che raccolgono sempre tutta la terra che riesce a entrare nelle scarpe.

Verso le otto e mezzo siamo già pronti per andare a letto, complice la giornata pesante. Sembra andare tutto (troppo) bene quando mi corico e mi metto a scrivere le due righe giornaliere. Di nuovo, è un’effimera illusione destinata a durare qualche ora soltanto. Infatti, verso le dieci e mezzo, il vento torna alla carica, e stavolta ci fa capire che sta facendo sul serio. Lo si sente mugghiare quando si infila dall’alto e scende nello stretto canyon in cui si trova il campo. Non sono folate, ma vere e proprie bordate che arrivano ogni dieci-venti secondi; come se qualcuno da lassù riuscisse a impacchettare l’aria e lanciarla giù nella valle. Ecco che il terreno così bello compatto e liscio diventa il luogo peggiore dove essersi accampati: ogni folata solleva una manciata di granelli di sabbia che vola rasente al suolo, proprio all’altezza perfetta per infilarsi sotto la tenda. Provo così ad aggiustare l’assetto della tenda e abbassarla di più in modo da dare meno superficie al vento e ridurre lo spazio in cui si può infilare la sabbia. La tenuta migliora e la tenda sbatte molto di meno, ma la sabbia continua a entrare troppo facilmente. Piego una bandana a mo’ di mascherina per respirare un po’ meno sabbia, e l’unica cosa che posso fare è chiudermi nel sacco a pelo e provare a dormire. Poco prima delle cinque, quando è ormai ora di alzarsi per riuscire a partire presto, stimo di aver dormito forse tre ore in tutto. I ventisette chilometri che ci attendono so già che saranno più faticosi del previsto.

Tutta questa riflessione rientra perfettamente in quella che ho già fatta qualche settimana fa sulla zona di comfort. Siamo davvero sicuri di sapere quale sia la nostra? In uno dei video iniziali che avevo pubblicato su Instagram avevo detto, prendendo in prestito le parole di un amico e hiker ben più esperto di me, che la zona di comfort si può espandere attraverso la somministrazione di piccole dosi di disagio1. Ma come molte cose nella vita neanche questa piccola trasformazione avviene in un colpo solo; così come nell’elaborare un lutto attraversiamo diverse fasi, anche qui il primo step riguarda l’accettazione: siamo lì sdraiati nella nostra tenda mentre fuori il vento non ha intenzione di cessare; a ogni folata una manciata di sabbia si deposita su tutto quello che la tenda contiene, compresi noi stessi. Cosa possiamo fare? Possiamo imprecare, urlare, piangere, uscire dalla tenda e cercare la compagnia di qualcuno, ma nulla di tutto ciò cambierà la situazione. L’unica cosa che può darci un (misero) sollievo mentale è accettare la condizione presente, una specie di esperimento di mindfulness in una situazione che è tutt’altro che rilassante. Questa è decisamente una cosa che il trail sta cercando di insegnarmi: qualunque cambiamento vogliamo apportare alla nostra vita dobbiamo cominciare con l’accettare le condizioni attuali. Il problema è che siamo disabituati a ciò, siamo impazienti in tutto e assuefatti dalla possibilità di cambiare qualunque cosa non ci piace della nostra vita, e pretendiamo di poterlo fare subito.

Se c’è una cosa che mi fa spaventare

Del mondo occidentale

È questo imperativo di rimuovere il dolore

— Brunori Sas, “Secondo me”

🌎 Where am I?


  1. Potremmo chiamarla una specie di mitridatismo↩︎