Posts tagged “hiking”
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Non sono certo il primo a farsi questa domanda, anzi. Buona parte dei fisici di fine ’800 e del secolo scorso hanno ragionato sulle implicazioni di una domanda analoga. ↩︎
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Immagino che a molti sia risuonato in testa il nome di Einstein per via della sua formula più famosa, ma in questo caso potete dimenticarvela: non ci serve a nulla. ↩︎
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Si potrebbe citare James Clerk Maxwell, che nel suo Theory of Heat (1872) scriveva che l’energia è “la capacità di compiere lavoro, [ossia] l’atto di produrre un cambiamento nella configurazione di un sistema contrastando una forza che si oppone a tale cambiamento”. È utile? Non molto, secondo me. ↩︎
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Il passo è tratto dal libro What is life?, capitolo 6, pag. 72 della versione inglese (Cambridge University Press, 1967). La traduzione è mia. ↩︎
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For whoever didn’t know about the Translagorai trail, here’s a map with several hikes in the area, including a description of the thru-hike. ↩︎
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Ci sono almeno altre due sezioni del Sentiero Italia che ci incuriosiscono parecchio: quella tra Piemonte e Val d’Aosta e quella che dal Piemonte porta in Lombardia, più o meno dove l’anno scorso abbiamo cominciato l’Alta Via dell’Adamello.
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Quest’anno sul Sentiero Italia abbiamo attraversato una varietà incredibile di ambienti montani, boschivi, rocciosi. Ma quello che ci è rimasto più nel cuore è il selvaggio Lagorai. Abbiamo scoperto che esiste la Translagorai, 5 giorni e poco meno di 80 chilometri immersi in questo ambiente quasi incontaminato, e non poteva che entrare di diritto nella lista Dove vorremmo andare prossimamente? L’idea che ci stuzzica di più è fare questo percorso in autonomia, ossia in tenda e bivacchi.
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Per ultima – ma solo perché, per adesso, si tratta di un’idea di progetto escursionistico che richiederà preparazione e allenamento (il problema al ginocchio mi ha insegnato qualcosa) – l’intenzione più ambiziosa di tutte: percorrere un tratto del Pacific Crest Trail, un lunghissimo2 trekking scenico che segue l’intera costa ovest degli Stati Uniti, dal Messico al Canada attraversando California, Oregon, e Washington. L’intero percorso è davvero un’impresa titanica non da poco, ma già progettare e riuscire a realizzare un paio di mesi di cammino su quel percorso è indubbiamente tra i miei3 sogni di long distance hiker.
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Anche perché stiamo scrivendo questa pagina ben tre settimane dopo la conclusione del trekking. ↩︎
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Senza alcun intento di stilare una classifica, il Pacific Crest Trail si sviluppa per un totale di 4270 km, sfiorando i 4000 metri di quota nel punto più alto. L’intero Sentiero Italia CAI copre ben 6170 km. ↩︎
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Ho soltanto sondato l’interesse di Federico a questo progetto. Non si è sbilanciato, ma mi pare che l’idea l’abbia incuriosito quanto basta. ↩︎
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Edoardo si prende il merito di aver iniziato il discorso avendo notato che una di loro indossava una bandana del Banff National Park, un’area di wilderness di più di seimila chilometri quadrati, all’incirca quanto l’intera provincia di Trento, giusto per mettere le cose in prospettiva. Il parco nazionale fa parte di un’area anch’essa considerata UNESCO World Heritage. ↩︎
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“Riposante” per modo di dire, visto che già ieri Edoardo si è ritrovato un ginocchio abbastanza dolorante, soprattutto in discesa, forse a causa un piccolo problema ai legamenti. È evidente che non era abbastanza allenato per un trekking del genere. ↩︎
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La foto in questa pagina è troppo piccola. Si può sempre cliccarci sopra per aprirla nelle dimensioni originali e ingrandirla un po’, nonostante la qualità sia un po’ scarsa: non è stata scattata con un teleobiettivo particolare. ↩︎
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Dalla scheda a pag. 156 del volume 11 della collana Sentiero Italia CAI. ↩︎
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La seconda variante, più recente, del Sentiero Italia è quella altoatesina: dal Rifugio Potzmauer arriva sempre ad Arabba lungo un percorso più a nord e lungo il quale si passa dal Latemar, il Catinaccio, il lago di Carezza, l’Alpe di Tires e di Siusi, fino a Selva Val Gardena, Puez, e infine il gruppo del Sella. ↩︎
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A voler essere precisi, non abbiamo percorso la prima tappa della variante trentina, quella che va dal Rifugio Potzmauer a Molina di Fiemme. ↩︎
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Non abbiamo foto, ma fatevi un giro sulla pagina web del “rifugio” per capire di che zona idilliaca si tratti. E per dare un’occhiata ai prezzi, se volete. Evitate il weekend, se possibile. ↩︎
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Anche noto come “il rifugio degli Alpini” perché nel 1921, dopo averlo ricostruito una volta terminata la guerra, la SAT lo donò all’Associazione Nazionale Alpini. Si vede che è un rifugio attrezzato per ospitare almeno duecento coperti e forse un centinaio di posti letto, distribuiti in due edifici separati. ↩︎
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Tutto vero, non è un nome inventato né una nuova specie di vacca. Generazioni di bovini allevati nei pascoli ripidi di queste valli hanno sviluppato un istinto naturale spiccato per individuare e percorrere sentieri tracciati da caprioli, camosci, e altri animali abituati a camminare su terreni che a noi umani sembrano impensabili. ↩︎
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Forcella Venegia, ovviamente ↩︎
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Con “abbiamo” s’intende chi in Trentino-Alto Adige non ci vive, e in genere chi conosce questa regione da turista. ↩︎
- Ci hanno fatto dimenticare il piacere differito, la cui ricompensa va sudata e attesa, rendendoci sempre più esigenti sulla quantità di piacere che pretendiamo.
- Hanno ridotto enormemente la nostra soglia del dolore, o meglio del fastidio che siamo disposti a sopportare. Sempre più emozioni, situazioni, relazioni con altre persone ci risultato insopportabili troppo rapidamente.
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Guardando una mappa più tardi, scopriamo che c’era un sentiero di collegamento. Ma vuoi mettere l’ebbrezza di lasciare giù lo zaino per una mezz’ora? ↩︎
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In particolare, abbiamo parlato del libro Dopamine nation di Anna Lembke. ↩︎
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Il lago di Cima d’Asta, con i suoi 91'000 metri quadrati di superficie e una profondità massima di 38 m, è tra i più grandi in Europa a questa quota. È anche la fonte di energia primaria del rifugio che, possiamo dirlo, funziona al cento per cento con energia rinnovabile grazie a una turbina a valle che attinge direttamente dal lago. Purtroppo, l’eccezionale siccità e le ondate di caldo precoci anche in quota di quest’anno hanno fatto scendere il livello del lago di circa 60 cm (parole del rifugista). ↩︎
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Ammetto che l’ispirazione l’ho avuta riguardando il film di Luis Buñuel La Via Lattea. Okay, decisamente ambizioso come modello, e non penso certo di raggiungere quei livelli. Ma ho detto che sarà solo un’ispirazione, no? ↩︎
Ci nutriamo davvero di energia?
Farò un excursus che sembra c’entrare molto poco con un trekking in montagna, ma credo invece che sia perfettamente in tema. Ci ho pensato proprio ieri pomeriggio quando mi sono messo a preparare tutti i pasti che dovranno sostentarmi nei prossimi giorni. Contando tutte le chilocalorie che stavo impacchettando, mi sono chiesto1: ma mi serve davvero l’energia contenuta in queste barrette o tortilla al burro d’arachidi? Serve essere un po’ più pignoli se vogliamo trarne un ragionamento abbastanza preciso. Seguitemi un attimo (se v’interessa).
Alla domanda “qual è la caratteristica essenziale di un essere vivente” potremmo rispondere brevemente con una parola: metabolismo. L’origine è dal greco, e significa “cambiare”. O meglio: scambiare. Scambio di che cosa? I candidati più ovvi sono due: materia o energia2.
Sulla materia, è facile capire perché non può essere ciò che caratterizza il nostro metabolismo. Ogni atomo di idrogeno, ossigeno, o carbonio contenuto in una barretta energetica o un maccherone al formaggio è assolutamente identico a un qualunque atomo di idrogeno, ossigeno, o carbonio che espelliamo nelle nostre maniere abituali (sudore, respirazione, deiezioni). Come potrebbe lo scambio di entità perfettamente identiche permetterci di vivere, ossia di distinguerci da un pezzo di materia inanimata?
Se non è una, è l’altra, ma non è così semplice. L’energia è un concetto strano e complicato. Non abbiamo una buona definizione di energia3 che non sia un modo preciso di calcolarla. E sappiamo calcolare benissimo anche la più piccola quantità di energia che si libera o viene assorbita in moltissimi processi della nostra epoca industrializzata. Sappiamo anche un’altra cosa, una delle leggi più fondamentali che esistano, un decreto inviolabile della natura: l’energia si conserva, non possiamo distruggerla.
Pensare che il nostro metabolismo sia lo scambio di energia è solo in parte corretto. Se non possiamo distruggere nessuna quantità di energia, e ovviamente ogni singola unità di energia – per esempio, una chilocaloria della nostra barretta – è equivalente a qualunque altra, dove sta il vantaggio? Che cos’è che scambiamo davvero? La risposta qui è davvero in un dettaglio minuscolo, ma non possiamo andare avanti se non citiamo il secondo decreto più inviolabile dell’universo. Possiamo riassumerlo così: l’energia si conserva, ma non è tutta uguale. Ci sono forme di energia che sono più utili di altre. E il secondo decreto stabilisce che, sempre e comunque, nel nostro metabolismo o in qualunque altra trasformazione, sarà inevitabile produrre un po’ di energia completamente inutile.
Dovremo quindi essere più precisi: il nostro metabolismo ci permette di prelevare energia utile da una gustosa (si fa per dire) barretta al burro d’arachidi, consente alle nostre fibre muscolari di contrarsi innumerevoli volte e a impulsi elettrici di attraversare le nostre sinapsi, e poi scambiare una certa quantità di energia inutile con l’ambiente che ci circonda. Ci sarebbe addirittura un legame tra la nostra temperatura corporea e la particolare efficienza nel liberarci di questa energia inutilizzabile.
So che parlare di energia utile potrebbe non aiutare molti a capire. “Non bastava semplicemente chiamarla energia e lasciar perdere questo discorso?” Certo, a patto di voler raccontare solo una parte della storia. Ma per poterci liberare del termine “energia utile” dovremmo andare ancora un po’ più a fondo e cominciare a parlare di entropia – e io devo ancora finire di preparare lo zaino per domani 😅. Voglio però concludere con le parole4 di uno dei più importanti fisici del ‘900, Erwin Schrödinger, che non aveva certo problemi a tirare in ballo l’entropia per spiegare di che cosa ci nutriamo davvero.
Che cosa c’è di così prezioso nel nostro cibo che ci impedisce di morire? A ciò si risponde facilmente. Ogni processo, evento, cambiamento – chiamatelo come volete; in altre parole, qualunque cosa accada in Natura implica un aumento dell’entropia nella parte di universo in cui ciò accade. Un organismo vivente produce costantemente entropia positiva, e perciò si avvicina al pericoloso stato di massima entropia, cioè la morte. L’unica maniera in cui può evitarlo, cioè rimanere in vita, è assorbire entropia negativa dall’ambiente circostante.
Ecco quindi una risposta alla domanda iniziale: non di energia vive l’uomo, ma di entropia negativa.
The theory
We’re only two days away from my (first) Translagorai1. I’ve put off writing this page for weeks, if not months. I told myself several times that I had an idea for how I might resume blogging about the next hiking trip I was preparing. And, even though I am not superstitious, I am not going to discuss one of the primary reasons I am currently here preparing for this journey. This Translagorai is, in many ways, the test for which I have been training physically and emotionally since February. It is one of the projects I am most excited about this year.
Last year, I also walked across the Trentino mountains, but if it is true (and often it isn’t) that we learn from our mistakes, I wanted to do better this year. And one thing I’ve learnt is that backpack weight is a crucial number. It might decide the fate of even the most modest trekking adventure. It can make the experience excruciating; you might come home uninjured, but if that number was higher than necessary – often because of a mix of absolutely unnecessary material – you might come home with a hamstring problem you will take months to recover from.
As a spreadsheets nerd, I did things correctly from the start. Every piece of gear, clothes, or other item that aspired to fit in my pack would be weighed (a few times, so I could get a reliable average 🤓). Also, when I chose to embark on the hike, I realized I’d need to improve a lot of my gear, specifically my backpacking gear (sleep system and backpack above all). So I separated everything into eight categories and methodically weighed everything – or estimated the weight based on the information I had. Here’s the result:
Although I may have overlooked something (hopefully minor), I’m pretty proud to have reached a base weight of roughly 6 kg. I was probably around 9 or 10 kg last year – and we didn’t even have a tent! So, why the theory? Because, in some ways, that weight doesn’t exist until it’s on my shoulders. That’s what I’ve been wondering since I entered the figures in that spreadsheet: will I be able to carry that weight for five days in a row?
E adesso?
Era ciò che li aveva spinti a lottare per il loro sogno, ed era ciò che faceva andare avanti me, e altre centinaia di escursionisti su lunga distanza, nei giorni più duri. Non aveva nulla a che fare con l’attrezzatura né con le calzature o la moda del trekking, niente a che vedere con filosofie di un’epoca particolare e neppure con il fatto di andare dal punto A al punto B. Aveva a che fare soltanto con la sensazione che ti dava stare nella natura. Con ciò che significava camminare per chilometri senza altra ragione se non vedere il succedersi di alberi e prati, montagne e deserti, torrenti e rocce, fiumi ed erba, albe e tramonti. Era un’esperienza potente e fondamentale.
Cheryl Strayed, “Wild”
7 giorni di cammino, più di 120 chilometri percorsi (includendo le due vette, Cima d’Asta e Monte Mulaz), 7300 metri di dislivello positivo e 6500 metri di dislivello negativo. Potrei aggiungere i dati delle calorie bruciate, del numero di passi, o qualsiasi altra metrica, ma nessun numero renderebbe l’idea dell’esperienza “potente e fondamentale” che è stata questa traversata trentina, dalla Val di Fiemme alla Val Cordevole sul Sentiero Italia CAI.
Il blog che abbiamo aggiornato qui (quasi) quotidianamente ha provato a raccogliere sensazioni, pensieri, e alcune foto durante il trekking; abbiamo dovuto aspettare qualche giorno dopo averlo concluso per poter maturare dei pensieri a riposo. Frequento la montagna da anni e l’ho fatto in molti modi diversi, ma l’esperienza del trekking su lunga distanza per me è diventata la scelta prediletta per esplorarla, anzi, per conoscerla davvero. Anzitutto, c’è il tempo trascorso in ambiente, a volte assai variegato come su questo tratto del Sentiero Italia. Si parla di acclimatarsi solo quando si sale in verticale, soprattutto quando la meta è una vetta a una certa quota. Io credo che anche lungo un percorso perlopiù orizzontale serva un tempo simile. Un trekking lungo, anche solo un centinaio di chilometri, non si svela tutto subito, richiede pazienza e anche un po’ di dolore, non soltanto quello del corpo. Ti insegna davvero che cos’è un chilometro e cosa significa “mettere un piede davanti all’altro”. E poi andare avanti, percorrere quello successivo e quello dopo ancora. Tutto perché muoversi lentamente, a passo d’uomo, è un modo a cui siamo molto meno avvezzi nel mondo moderno, dove i chilometri riusciamo a consumarli a velocità incredibili rispetto a un secolo fa.
Un trekking di questo tipo mi ha dato anche l’occasione di mettere in pausa tutto ciò che non aveva direttamente a che fare con il trekking. Sarà un’ovvietà applicabile a qualunque vacanza, ma la mia esperienza dei sette giorni di cammino è stata davvero totalizzante, e non si è trattato solo di non avere (quasi) mai una connessione a internet per comunicare come siamo abituati oggi.
E poi ci sono le persone che puoi avere il tempo e l’occasione di conoscere durante un trekking del genere, a cominciare da quelle con cui decidi di pianificare il percorso. Sono fortunato a conoscere Federico, ormai compagno fisso di diverse avventure in montagna. So già che con lui c’è la sintonia ideale per questo tipo di vacanza, dove la soddisfazione è la fatica che devi metterci per portare a casa tutti i chilometri della tappa. Grazie Fede per aver scelto di organizzare e condividere anche questo trekking!
Sono preziosi anche gli incontri fortuiti con persone sconosciute che camminano lungo percorsi diversi dal tuo e con altre mete. Dalla bidella trentina a cui piace camminare in solitaria agli studenti di geologia in giro per i campionamenti; dagli scout con uno zaino da venticinque chili a quelli che fanno trail running e viaggiano ultraleggeri. La vita del rifugio, poi, nel condividere la cena con persone che non hai mai visto o raccontarsi la giornata davanti a una grappa prima che il bar chiuda, ti convince che forse siamo tutti lì per lo stesso scopo.
Anche se non abbiamo più da raccontare Cosa ci aspetta domani1, possiamo già anticipare quali sono i progetti in cantiere, o perlomeno quelli a cui abbiamo pensato o stiamo considerando da un po’ – anche a costo di mescolare una buona dose di sogni.
Giorno Sette: la Regina che era bianca
Dettagli tappa | |
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Partenza | Rifugio Contrin, 2012 m |
Arrivo | Arabba, 1645 m |
Tappe intermedie | Rifugio Castiglioni, 2045 m; Rifugio Padon, 2407 m |
Lunghezza | 20.7 km |
Dislivello | +908/-1283 m |
La Cresta del Padon appartiene geograficamente al gruppo della Marmolada, anche se si discosta sia morfologicamente che cromaticamente dal resto del complesso montuoso. Qui, infatti, non dominano chiari calcari bensì scure rocce vulcaniche che fungono da fertile terreno per smeraldine praterie d’alta quota. L’ultima tappa della variante trentina si presenta non troppo faticosa, con una salita molto frequentata e una seguente discesa che sorprendentemente sa regalare degli attimi di intimità davvero impensabili al cospetto di impianti e piste da sci. Il punto di forza di questo percorso è indubbiamente quello panoramico, con lo sguardo che difficilmente riesce a scostarsi dal bianco velo della “regina” Marmolada prima e dal castello roccioso del Sella poi.
L’ultima tappa di questa nostra traversata trentina è ancora una modifica del percorso originale del Sentiero Italia: combineremo la tappa di collegamento che dal Rifugio Contrin porta al Rifugio Castiglioni con quella che taglia il versante opposto alla parete settentrionale della Marmolada, un vero e proprio belvedere sulla Regina delle Dolomiti.
Dopo una notte abbastanza ristoratrice e tranquilla – nonostante fossimo in una camerata da nove – quando arriviamo in sala da pranzo alle 7 e 30 la troviamo già piena; perciò dividiamo il tavolo con due ragazze canadesi1 che sono venute da Calgary, in Alberta, per farsi un giro sulle nostre Dolomiti: stanno percorrendo il nostro stesso percorso in senso inverso, dirette a Passo Rolle passando per Passo Valles. Sono rimasto davvero stupito dalla loro scelta, ma è pur vero che le Dolomiti sono patrimonio UNESCO e sono mete parecchio celebri oltre i confini italiani – in fondo, non è molto diverso dalla scelta di un europeo di andare a fare trekking sulle Ande cilene o la Sierra Nevada in California.
Dopo colazione, salutiamo le due ragazze al momento di chiudere gli zaini, e alle 8:31 siamo già sul sentiero 602 che scende attraversando la Val Contrin – altra valle totalmente votata all’alpeggio – fino al piccolo abitato di Alba, frazione di Canazei, ultimo paese della Val di Fassa. Il sentiero è in realtà una strada carrozzabile che permette di raggiungere il rifugio in fuoristrada (il permesso è riservato alle attività del rifugio), perciò riusciamo a fare un paio di scorciatoie per abbreviare la discesa, anziché seguire tutti i tornanti.
Prendiamo una deviazione quando siamo ormai a quota 1500 metri e ci dirigiamo verso Penìa, altra piccola frazione di Canazei. Da qui, il Sentiero Italia comincia a risalire il torrente Avisio, corso d’acqua d’importanza geologica notevole avendo scavato la Val di Fassa, la Val di Fiemme, e la Val Cembra prima di buttarsi nell’Adige. Sul sentiero che lo costeggia e che riprende lentamente quota, ci sono numerosi pannelli illustrativi che spiegano la storia dei paesi che sono nati intorno al torrente, dei ritmi stagionali che lo caratterizzano, nonché la flora e la fauna che lo popolano. È un tratto abbastanza riposante2 della doppia tappa di oggi.
Il sentiero attraversa un paio di volte e affianca per alcuni chilometri la strada statale in direzione del lago di Fedaia (e l’omonimo passo); poi si discosta definitivamente e rimane più in basso, attraversa lo spazio aperto di un pianoro chiamato Pian Trevisan, e raggiunge l’inizio del sentiero 605 nei pressi di un hotel alpino. Qui si comincia a fare sul serio perché il sentiero s’inerpica subito fra sassi e alti gradoni rocciosi, spianandosi dopo circa cento metri di dislivello. La salita riprende più dolce e graduale, in un ambiente boschivo perfetto per l’ennesima giornata molto calda, fino a raggiungere il Col Ciampè (circa 1850 m). Da qui, ormai al limite del bosco, percorriamo un ultimo tratto ripido che ci porta proprio sotto allo sbarramento della diga del lago di Fedaia vicino alla quale si trova il rifugio Castiglioni Marmolada. Siamo già ben oltre l’ora di pranzo, perciò ci concediamo una pausa più lunga e un pasto veloce al rifugio (gnocchetti al ragù di cinghiale e carne salada trentina).
Dopo pranzo, Federico si sente obbligato a fare un pit stop al lago artificiale per provare a recuperare il tono muscolare di gambe e piedi – entrambi ci hanno portato per più di 90 chilometri dalla Val di Fiemme – e anch’io provo a cercare un po’ di sollievo al ginocchio acciaccato.
Decidiamo di modificare anche la tappa del pomeriggio per fare meno dislivello in salita: taglieremo il pezzo di sentiero che passa per il rifugio Luigi Gorza – altro autogrill invernale delle piste che scendono da Porta Vescovo – e andremo direttamente al rifugio Padon, prendendo una traccia di sentiero che sarà un po’ da inventare nel primo tratto.
Il primo pezzo della variante è giusto segnato nel punto in cui devia dal sentiero principale che porta al rifugio Gorza. Abbiamo però la mappa digitale, il GPS, e sappiamo in che direzione dobbiamo andare. Dobbiamo soltanto seguire la traccia a mezza costa – chiaramente un terreno battuto da capre e pecore – e prendere quota fino a circa 2400 metri. Incontriamo un paio di persone che hanno deciso di fare la stessa deviazione al contrario, e ciò ci convince di essere sul percorso giusto, anche se in alcuni punti l’unica traccia è solamente l’erba calpestata da chi è passato prima. In cambio, però, abbiamo la fortuna di poter ammirare il versante nord della Marmolada in tutta la sua vastità.
È impossibile non notare due cose. Si riesce a distinguere3 il punto in cui si è creata l’enorme voragine in seguito al distacco di inizio luglio: assomiglia molto all’ingresso di una caverna, ma si capisce che la geometria originale di quella parte di ghiacciaio è stata profondamente modificata da un evento improvviso. È anche innegabile la condizione pietosa del ghiacciaio: la seconda foto mostra chiaramente una lingua del ghiacciaio coperta con teli bianchi nella speranza di poterla salvare.
Due numeri, così per dare un’idea dello stato attuale:
Le ultime indagini sullo spessore del ghiaccio con georadar rivelano come l’intero bacino abbia ormai perso l'80% del proprio volume, passando dai 95 milioni di metri cubi nel 1954 ai 4 milioni attuali4.
Alcune ottimistiche previsioni sperano di mantenere il ghiacciaio per i prossimi 30 anni. Osservandolo dal vivo per la prima volta, noi due ci siamo detti che sarà già tanto se la parte più alta resisterà per altri 15 anni.
Attraversiamo (letteralmente) un gregge di pecore che si muove verso prati più alti e, dopo essere ritornati su sentiero ben segnato – quello che avremmo percorso se fossimo saliti fino al rifugio Gorza – arriviamo al Passo del Padon in cui converge l’omonima cresta e su cui si sviluppa una famosa ferrata nota come Sentiero delle trincee. Qui si nota subito come le rocce siano di tutt’altra specie rispetto alle Dolomiti: si tratta di scure rocce vulcaniche che hanno favorito la crescita delle praterie in quota, adesso colonizzate da greggi di pecore. Mentre dal passo ci avviciniamo all’ultimo rifugio lungo un sentiero pianeggiante, notiamo anche dei massi conglomerati, abbastanza diffusi in questa zona: si tratta di rocce composte da una matrice di origine dolomitica e dal materiale di sgretolamento degli antichissimi edifici vulcanici che si trovavano in Val di Fassa. Pur non avendo la minima competenza in materia, è difficile non prestare attenzione alle “opere” di questo museo geologico a cielo aperto, che espone quasi 250 milioni di storia della Terra.
Al rifugio Padon la stanchezza si fa sentire parecchio. Beviamo due bevande zuccherate e mangiamo l’ultima barretta, ma sappiamo che l’energia necessaria l’attingeremo soltanto dalla certezza che la discesa verso Arabba sarà davvero l’ultima.
Alle tre ci rimettiamo in spalla gli zaini e cominciamo la discesa che sarà prevalentemente lungo piste da sci di Arabba, parte dell’enorme comprensorio del Sellaronda. Dopo un primo pezzo molto ripido che percorre una stretta traccia scomoda su ghiaia, camminiamo quasi in piano fino alla stazione intermedia della funivia, che da Arabba sale alla forcella Porta Vescovo. Inutile dire quanto siamo tentati di prendere la seconda funivia in discesa per risparmiare un po’ le gambe. Alla fine, però, ci ripetiamo il mantra che ha segnato questo trekking sin dall’inizio – “bisogna solo mettere un piede davanti all’altro” – e continuiamo la discesa. Usciamo dalla pista da sci percorrendo un pezzo del Sentiero Geologico di Arabba, e anche questo sentiero non ci fa sconti sulla pendenza. L’unico pregio del seguire lo sviluppo di una pista da sci è che sei sicuro di percorrere la via più breve: arriverai a destinazione senza troppe varianti di percorso, ma probabilmente anche senza più le gambe.
Alle 17:32 arriviamo alla stazione di partenza della funivia di Arabba e, prima di orientarci e capire dove sia il nostro ultimo alloggio, ci stringiamo la mano come abbiamo fatto tante altre volte arrivati in cima a una vetta o al termine di una via d’arrampicata: la variante trentina, quella storica5, del Sentiero Italia l’abbiamo ufficialmente conclusa6 🙌 🏔️
Giorno Sei: ambiente lunare sui Monti Pallidi
Dettagli tappa | |
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Partenza | Passo Valles, 2030 m |
Tappe intermedie | Passo S. Pellegrino, 1899 m |
Arrivo | Rifugio Contrin, 2012 m |
Lunghezza | 17.6 km |
Dislivello | +1260/-668 m |
Tappa di media lunghezza dal buon dislivello che porta alla scoperta del versante meridionale del gruppo della Marmolada, caratterizzato da superbe cime rocciose e sicuramente meno celebrato di quello settentrionale che ospita il più esteso ghiacciaio dolomitico. Dalle bucoliche distese pascolive del Fuciade si raggiungono le alte zone rocciose del Passo delle Cirelle, passando prima per ampie praterie d’alta quota e importanti ghiaioni. Lo spettacolo non manca di sicuro, sia per la bellezza degli ambienti su cui ci si muove, sia per la vista sui numerosi gruppi montuosi che riempiono via via l’orizzonte. La vista sulla leggendaria Parete Sud della Marmolada, teatro di epiche ascensioni, è di quelle che difficilmente si possono dimenticare.
Il primo tratto di questa sesta giornata di cammino è stato il pezzo mancante di ieri, ossia la congiunzione del Passo Valles con il Passo S. Pellegrino. Il percorso era piuttosto semplice e abbastanza lineare dovendo collegare due passi alla stessa quota, però la guida ci aveva avvisato che la traccia non sarebbe stata sempre visibile, in mezzo a comprensori sciistici e incroci con altri sentieri. È bastato poco perché sbagliassimo direzione – avremmo potuto guardare un po’ più spesso la traccia GPS, ma il nostro passo era già spedito. Così ci siamo trovati in meno di due ore su al Col Margherita, a 2500 metri, il punto più alto del comprensorio del S. Pellegrino.
L’errore ci sarebbe costato più di due ore se, ironia della sorte, non ci fosse stata la possibilità di prendere la funivia in discesa. Non abbiamo avuta molta scelta, ci mancavano troppi chilometri e dislivello per voler fare gli integralisti.
In cinque minuti, la funivia ci porta al San Pellegrino dove ci rendiamo subito conto che è un sabato di metà luglio. Sulla strada, tutta carrozzabile, che porta alla bucolica conca di Fuciade sembra di essere lungo un pellegrinaggio. In meno di venti minuti, su un comodo falsopiano raggiungiamo il Rifugio Fuciade1, una stupenda costruzione in legno in pieno stile trentino (sauna inclusa). L’avevamo pure considerata come un potenziale punto di appoggio, ma il listino prezzi per una notte con colazione ci ha subito dissuaso, senza contare l’affollamento turistico di questa zona – che però se lo merita tutta: i pascoli curatissimi che incorniciano alcune vette del gruppo della Marmolada da un lato e i profili delle Pale di San Martino dall’altro.
Da qui partirà il nostro sentiero (n. 607) che diventerà l’escursione vera e propria della tappa giornaliera. Cogliamo quindi l’occasione per mangiare un panino (l’inflazione della zona da vip si fa sentire) e poi, ben incremati, ripartiamo con destinazione intermedia il Pas de le Cirele. Saliamo con una pendenza graduale sempre tra i prati da pascolo, puntando alle vette minori del gruppo della Marmolada: la Punta Jigolé, l’Ombretola, e il Sasso di Valfredda. Dopo quasi un’ora, il sentiero si fa un po’ più ripido e i tornanti aumentano finché raggiungiamo un pianoro, il Busc da la Tascia, sotto l’omonima vetta (Sas da la Tascia). Qui incontriamo una coppia che si sta prendendo una pausa dopo aver concatenato un paio di vette, l’Ombreta (3011 m) e la sorella minore Ombretola (2930 m); quando gli raccontiamo del nostro percorso, anche loro ci fanno i complimenti per avere già quasi cento chilometri nelle gambe. Più tardi al rifugio, ci siamo chiesti come mai parlare del Sentiero Italia susciti un’ammirazione del genere in questa regione, visto che di percorsi impegnativi e lunghi ce ne sono in abbondanza. Però fa senz’altro piacere che qualcuno riconosca la nostra piccola impresa.
Pochi passi oltre il Busc il terreno diventa un tipico ghiaione, da cui ci si accorge di come questo punto era la soglia di un ghiacciaio ormai scomparso. Nonostante la traccia del sentiero sia ben visibile e salga comodamente la fiumana di ghiaie in cui ci troviamo, tra la pendenza e il sole del primo pomeriggio smettiamo di chiacchierare perché entrambi dobbiamo trovare il passo adatto a salire senza strappi.
Incontriamo solo poche persone che scendono – Cristina, la nostra prima conoscenza alla Malga Consèria, ci aveva avvisati che è talmente divertente percorrere questo ghiaione in discesa che quasi nessuno lo fa in salita – e, ormai al passo, abbiamo la fortuna di incrociare un camoscio: in meno di un minuto risale di corsa il versante opposto al passo, scavalca la cresta, e si butta a capofitto nel ghiaione dove noi abbiamo appena sudato per una buona ora e mezzo. Non c’è modo di riuscire a fare una foto o un video, perciò ci limitiamo a guardarlo e riconoscere che questa è casa sua, siamo noi gli estranei.
Scendiamo verso nord sul versante opposto, ancora tra ghiaie e roccette, su un sentiero un po’ meno faticoso del ghiaione. In pochi minuti, raggiungiamo un pulpito roccioso con un monumento ai caduti della Grande Guerra e uno splendido panorama sul Sassolungo.
Scendiamo rapidamente nella Val de le Cirele, verso i prati del Passo San Nicolò. Il terreno cambia di nuovo, alcuni abeti e un manto erboso sostituiscono roccia e ghiaia. Questo tratto del Sentiero è quello in cui abbiamo incontrato più animali: oltre alla cavalcata del camoscio e uno stambecco appostato su un cucuzzolo roccioso – impossibile fargli una foto senza un obiettivo adeguato – avremo intravisto almeno una decina di marmotte che uscivano dalle tane, correvano sui prati, e rientravano altrove dopo averci osservato per un po’ a distanza di sicurezza. Capiamo di essere ormai vicini alla meta quando attraversiamo alcuni pascoli e i loro abitanti, e pochi minuti dopo raggiungiamo la Malga Contrin (2027 m), in cui si possono acquistare diversi prodotti caseari. Il rifugio Contrin2 è proprio dietro l’angolo.
Giorno Cinque: il richiamo del Mulaz
Dettagli tappa | |
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Partenza | Rifugio Capanna Cervino, 2084 m |
Tappe intermedie | Rifugio G. Volpi al Mulaz, 2570 m |
Arrivo | Passo Valles, 2030 m |
Lunghezza | 21 km |
Dislivello | +1308/-1307 m |
Salite sulla cima di una montagna e piangendo ricercate una visione.
—Proverbio Sioux
Il titolo non lascia dubbi su quale opzione abbiamo scelto. La variante proposta da Michele, cuoco e fotografo di Capanna Cervino, era troppo più interessante della tappa del Sentiero Italia, tappa che noi avevamo già accorciata per questioni organizzative: anziché fermarci al passo San Pellegrino, abbiamo accorciato di quasi metà a Passo Valles, il confine tra Veneto e Trentino.
Dopo una colazione da re – in assoluto la migliore finora – rifacciamo gli zaini, salutiamo Elena, gestore del rifugio dicendole che saremmo andati verso il rifugio Mulaz, e lasciamo il Capanna Cervino poco prima delle nove. Dopo alcuni tornanti su strada forestale (stavolta gli scarponi li avevamo già indosso visto che avremmo dovuto salire su un vero sentiero dopo pochi chilometri) raggiungiamo la Baita Segantini, per poi continuare sulla stessa forestale che scende nella Val Venegia. Il nome di questa piccola valle, dedicata quasi totalmente a pascolo, deriva dalla città di Venezia, la Repubblica Marinara che comprava in esclusiva il pregiato legname.
Il sentiero originale della tappa prevedeva di attraversare l’intera valle, risalire fino alla forcella Venegia, e poi scendere a passo Valles. Noi invece, non appena conclusa la discesa dalla baita, abbiamo preso subito sulla destra la deviazione per il rifugio G. Volpi di Misurata al Mulaz.
È un sentiero escursionistico ben diverso da quello previsto dalla tappa del Sentiero Italia. Non camminiamo molto prima di cominciare a salire a un buon ritmo, inizialmente tra un misto di massi e pini, poi soltanto fra rocce bianchissime che ci ricordano ancora una volta che qui, tanto tempo fa, doveva esserci il mare. Dovendo prendere poco più di seicento metri di dislivello in circa tre chilometri, il sentiero comincia a stringere i tornanti e salire rapidamente. Facciamo soltanto una pausa acqua appena prima di terminare la parte in ombra e arriviamo al Passo Mulaz (2619 m) in due ore e venti.
Da qui, dieci minuti di discesa ci portano al rifugio, ma già a metà di questo sentiero di collegamento notiamo l’indicazione per la vera meta di questa impegnativa deviazione: la vetta del Monte Mulaz. Arriviamo al rifugio, abbandoniamo gli zaini, tiriamo un sorso d’acqua, e prendiamo la traccia di sentiero che sale in vetta.
Sono altri 500 metri di dislivello, tra roccette, canalini, e un paio di traversi un po’ esposti ma che si possono percorrere senza particolari difficoltà. Da evitare, però, se si soffre di vertigini.
Un balcone sul Mulaz
Non solo i 2906 metri del Mulaz sorpassano l’altra vetta che abbiamo salito, ma ci portano su un balcone strepitoso sulle Pale, la Marmolada, l’Antelao, il Civetta. Anche la catena del Lagorai e le Dolomiti di Brenta si riescono a intravedere in lontananza.
“È obbligatorio suonare la campana” ci aveva detto Michele, e così facciamo – finalmente un oggetto in vetta con cui si può interagire, non la solita croce. Scambiamo due parole con un paio di altre persone che sono lì per lo stesso motivo: ammirare e contemplare il panorama, grazie anche alla bella giornata sebbene il cielo non sia proprio terso – si nota una certa umidità nell’aria tipica del caldo afoso che è già arrivato giù in città.
Un signore sulla sessantina sembra conoscere a menadito qualunque pizzo, vetta, o cima si possa distinguere da lassù. Ci chiede una mano per confermare la sua buona memoria quando si accorge che abbiamo un’app sullo smartphone che ci ha permesso di scattare quelle due foto là sopra. La moglie prova a obbligarlo a mangiare almeno un paio di cracker, ma lui è troppo estasiato dal riconoscere tutte queste cime, molte delle quali ha probabilmente salite quando era più giovane. “Se non ti sazia questo panorama, cos’altro?” ci dice.
Chiacchieriamo brevemente anche con una donna – anche lei tra i cinquanta e i sessanta – che ci chiede di farle una foto mentre suona la campana di vetta. È salita da sola e ci racconta che andare in montagna in solitaria è una sua passione da tempo – era in cima alla Marmolada la settimana prima del ben noto crollo di un pezzo del ghiacciaio, e ci confida più volte quanto si senta fortunata. Adesso che è in pensione, ci dice, ha parecchi progetti in cantiere che vorrebbe realizzare; noi gliene abbiamo regalato un altro parlandole del Sentiero Italia. Ci salutiamo (noi abbiamo una certa fame), con lei che si congratula con noi per aver fatto già tutta questa strada, su e giù per le montagne trentine. Giù diritti, quindi, e in mezz’ora ritorniamo sul sentiero per il rifugio dove ci rifocilliamo come si deve con un abbondante piatto di pasta – anche se Federico si è lamentato del troppo aglio nel suo piatto di tagliatelle ai funghi.
Il Passo Valles è ancora lontano: dobbiamo aggirare tutto il massiccio conico del Mulaz per andare a riprendere il Sentiero Italia nel punto in cui esce risalendo dalla Val Venegia.
Ore 14:53 siamo già in marcia, e i primi due-tre chilometri sono da percorrere con calma: è un tratto molto ripido, con alcuni passaggi su roccia e un paio di canali (tutti ben attrezzati però, serve la solita buona dose di attenzione). È un pezzo molto scenico dell’Alta Via n. 2 delle Dolomiti, che nel senso di marcia arriva al rifugio Mulaz risalendo proprio questo canale.
La deviazione è stata meravigliosa, ma non certo a costo zero: arriviamo alla Forcella Venegiotta (quanta fantasia nei nomi di selle e passi qui), in cui si conclude il pezzo tecnico dell’Alta Via, e la stanchezza si fa ben sentire; i piedi si lamentano di essere ancora costretti negli scarponi, ma ci mancano ancora almeno due chilometri prima di incrociare il Sentiero Italia.
Non incontriamo anima viva (esclusi alcuni gruppi di vacche equilibriste1 al pascolo) fino all’ultima forcella: indovinate come si chiama2? Secondo il GPS, abbiamo percorso altri 2.6 chilometri. “Sembrava molto di meno sulla mappa”, ci diciamo, ma è la solita ovvietà di chi crede che segnare accuratamente una traccia su una mappa digitale ti sconti una parte della fatica che dovrai fare nel percorrerla, quella traccia.
Dalla forcella vediamo già il rifugio/albergo al Passo Valles, ma ci mancano ancora un centinaio di metri da scendere per arrivare a quota duemila. Ormai piedi e gambe vanno verso il basso grazie all’inerzia moltiplicata per l’affaticamento muscolare, e in meno di mezz’ora siamo al passo con un tempismo perfetto: mettiamo piede in camera – una minuscola tripla che è abitabile da sole due persone – e comincia a piovere, l’unica perturbazione veramente attiva che abbiamo incontrato da inizio settimana. Nota di merito al rifugio Valles per una cena davvero abbondante: abbiamo dovuto bere due tisane al finocchio a testa per digerire e riuscire ad andare a dormire, nonostante i venti chilometri e passa camminati.
Cosa ci aspetta domani
Altra tappa leggermente modificata rispetto al percorso del Sentiero Italia. Dovremo prima raggiungere il Passo S. Pellegrino (circa 8 km), passare dal villaggio alpino di Fuciade – una delle località più frequentate della Val di Fassa – e da lì salire fino al Pas de le Cirèle a duemila seicento metri. Dal passo, dopo seicento metri di discesa nella Val de le Cirele, arriveremo al Rifugio Contrin, ultimo pernotto in un rifugio alpino.
Giorno Quattro: a Passo di sandalo
Dettagli tappa | |
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Partenza | Caoria, 854 m |
Arrivo | Rifugio Capanna Cervino, 2084 m |
Tappe intermedie | Malga Tognola, 1986 m |
Lunghezza | 21.3 km |
Dislivello | +1413/-332 m |
Tappa molto lunga e faticosa che permette di lasciarsi alle spalle i graniti di Cima d’Asta e di tornare fra i porfidi del Lagorai, prima che questi lascino definitivamente spazio alle chiare dolomie delle Pale di San Martino. Una grandiosa cavalcata dal Vanoi al Primiero, su foreste che sono sempre state la fonte primaria di reddito in quest’angolo riservato del Trentino orientale. Durante il percorso in più occasioni si potrà cogliere questo aspetto, preservato e valorizzato dal Parco Naturale Paneveggio-Pale di San Martino e dall’Ecomuseo del Vanoi. Luoghi silenziosi a pochi passi dall’affollato (in alta stagione) centro di San Martino di Castrozza, boschi e praterie che ospitano una fauna degna di rispetto e che può essere facilmente osservata dall’escursionista discreto e rispettoso. Grandiosa vista sulle Pale di San Martino.
Il passo del titolo è ovviamente Passo Rolle, la meta di oggi e una delle più note nel Trentino turistico. Il cambio di ambiente è netto anche per quanto riguarda la geologia: le celebri Pale di San Martino segnano l’inizio delle rocce dolomitiche, verticali e levigate, piene di buchi e scavate all’interno da torrenti e corsi d’acqua sotterranei.
Partiti da Caoria dopo il comfort di un b&b a cui non eravamo abituati (il bagno privato è un optional), eravamo già preparati ad affrontare la tappa lunga. Grazie alla guida, sapevamo che i primi chilometri sarebbero stati su strada forestale, e ciò voleva dire una cosa: poter posticipare il momento in cui indossare le scarpe. Senza troppa paura, abbiamo imboccato il sentiero calzando i comodi sandali. Dopo alcune baite, siamo ufficialmente entrati nel Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino.
Il punto di riferimento era la Malga Tognola; raggiuntala, avremmo recuperato tutto il dislivello perso il giorno prima verso Caoria. In 2 ore e 50 minuti abbiamo percorso i 10 km per arrivare allo chalet Malga Tognola: metà tappa a bordo dei sandali! Davvero un lusso.
Breve pausa pranzo con un maxi panino – da un classico menù per sciatori affamati – e poi il momento di cambiarci calzature è arrivato: il tracciato sarebbe stato più sconnesso, su sentieri stretti e meno agevoli di quelli percorsi la mattina. Destinazione intermedia successiva: il passo e i laghi di Colbricon, dove cominceremo ad assistere a un altro cambio di vegetazione con l’ingresso di pini cembri e abeti rossi.
La montagna svenduta
Se c’è un lato negativo che è emerso mentre ci avvicinavamo a Passo Rolle una volta ripartiti dalla Malga Tognola, è stato rendersi tristemente conto che queste zone sono predominio esclusivo di piste e impianti da sci. Ovunque. Ogni due-tre tornanti del sentiero, si passava sotto un pilone della seggiovia, o si attraversava una pista, contando il numero di cannoni da neve con i loro lunghi bracci grigi che si distinguono chiaramente come brutte aggiunte artificiali dell’uomo.
Anche la guida del Sentiero Italia dedicata a questa regione fa notare questo aspetto che un po’ stride con l’immagine di montagna meravigliosa e perfetta che spesso abbiamo1 del Trentino:
Uno dei lati negativi e dei cosiddetti “errori di gestione” riguarda certi valichi alpini, vittime, già in passato, di un’edilizia selvaggia e degna di una qualsiasi disordinata metropoli italiana. In realtà l’impressione è che si sia deciso di sacrificare del tutto quei luoghi, continuando a imbrattarli con nuovi caroselli di impianti che, senza ombra di dubbio, fanno e faranno allontanare sempre più il popolo dei camminatori. Sono scelte che presumibilmente accontentano qualcuno a discapito di altri. L’impressione è quella di una montagna svenduta, o meglio venduta una sola volta, rovinata e non più recuperabile per un turismo meno impattante. Una sorta di prodotto usa e getta.
Un ultimo commento a proposito riguarda il tipo di persone che questo genere di sfruttamento della montagna attira. È come una mensa economica che punta tutto su piatti che piacciono ai più – senza però trascurare la qualità (perlomeno non sempre). La maggioranza di chi verrà, lo farà per assaggiare uno di quei piatti, che lentamente dovranno essere preparati a ritmi quasi industriali. Qualcosa da qualche parte dovrà subirne le conseguenze. Arriveranno quindi persone a cui non interessa conoscere davvero e a fondo l’ambiente che le circonda, non hanno tempo (e forse neanche il fisico o la voglia) di esplorare lentamente valli e forcelle, di fare conoscenza con gli animali autoctoni o le piante tipiche – eccetto forse le erbe con cui si prepara qualche grappa, che si può degustare in uno dei tanti chalet per sciatori.
È volutamente un’osservazione critica questa, ma non serve troppo acume per capire come la pensiamo. Però non è da leggersi come un “verrà il giorno” di manzoniana memoria, ma semplicemente come una presa di coscienza: lo sci da discesa (e attività affini) ha un impatto violento sulla montagna; consuma enormi quantità di risorse (acqua, boschi, elettricità, carburanti). Vogliamo continuare a farlo perché è fonte imprescindibile per il turismo? Va benissimo, ma dobbiamo esserne consapevoli e essere disposti a accettare le conseguenze.
Ci concediamo una breve pausa al rifugio Colbricon per poi riprendere il comodissimo sentiero 348 che, quasi in piano, punta verso Malga Rolle.
Usciti dal bosco, c’è un ultimo strappo in salita, in parte sulle piste da sci, per raggiungere Passo Rolle (1984 m), marcato confine geologico – comincia il regno indiscusso di porfidi e dolomie – e climatico (il pino cembro colonizza sostanzialmente questo versante, quello della Val di Fiemme).
Per evitare il luogo un po’ troppo turistico, noi alloggeremo al Rifugio Capanna Cervino, a 2084 metri.
Un edificio vecchio stile che ricorda una baita d’altri tempi, con le pareti riempite di foto storiche della baita, di animali tipici della zona, e ovviamente dei panorami mozzafiato. Quella che segue era infatti la vista dalla finestra del bagno.
Ci beviamo una birra per premiare degnamente la fatica del giorno, diamo le ordinazioni per la cena, e via diretti in doccia che è l’unico altro desiderio a chiusura della giornata.
Cosa ci aspetta domani
Tappa decisamente scenica e spettacolare, in cui congiungeremo due dei più estesi gruppi delle Dolomiti: le Pale di San Martino e la Marmolada.
C’è però una deviazione nell’aria. Parlando con il cuoco al rifugio Capanna Cervino, ci è stata consigliata una variante che ci porterebbe al Rifugio Mulaz, sotto l’omonima cima (2908 m, superando il primato di Cima d’Asta), per poi percorrere un tratto dell’Alta Via n.2 delle Dolomiti e ricollegarci al Sentiero Italia poco sopra il Passo Valles. Sceglieremo il consiglio di un locale – che cammina al triplo della nostra velocità – oppure rimarremo sul percorso prestabilito?
Giorno Tre: varietà
Dettagli tappa | |
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Partenza | Rifugio Ottone Brentari, 2475 m |
Arrivo | Caoria, 854 m |
Lunghezza | 13 km |
Dislivello | +84/-1677 m |
Altra tappa in ambiente granitico, caratterizzata da un traverso su pietraie dall’aspetto lunare e da una lunga discesa che porta nuovamente verso la catena del Lagorai. L’ambiente è solitario, frequentato solo dagli amanti delle lunghe traversate e dei luoghi lontani dall’affollamento. È questa una montagna scomoda che non ha mai richiamato folle di camminatori, una montagna che ha saputo mantenere la propria primordialità e un fascino che pochi altri angoli del Trentino sanno regalare. Il cammino termina nella Valle del Vanoi, dove il turismo di massa non è ancora giunto e dove la dimensione umana rappresenta ancora un valore da preservare. Come nella tappa precedente l’elemento chiave è l’acqua, raccolta qui in torrenti rumorosi che hanno inciso lunghe valli simili a quelle delle Alpi Occidentali.
Tappa lunga e tutta in discesa, ma senz’altro una delle più varie. Si parte dai massicci brulli di Cima d’Asta, e dopo un breve sviluppo più o meno in piano tra enormi massi di granito, si percorre il ripido tratto attrezzato che dalla Forcella del Passetto (2490 m) – quasi cinquecento metri di zigzag tra strette tracce che vanno a genio ai camosci, un po’ meno a noi umani – porta alla Forcella della Val Regana (2047 m).
Dopo la forcella si scollina e ci si inoltra lentamente in uno splendido ambiente boschivo. Non sono mancate più di una traversata di prati con erba più alta di noi (non poco fastidiosa, chiediamo scusa per le poche foto). L’ambiente così ricco di verde ci ha anche regalato una pausa merenda a base della tanto agognata frutta.
Entracte: le occasioni della vita
Dopo il lungo tratto verticale del sentiero Gabrielli – là l’attenzione era concentrata sul mettere i piedi nel posto giusto e le mani su sassi che non si muovessero, almeno nel primo pezzo – abbiamo aperto la seguente discussione. Io, Edoardo, con tono volutamente polemico, ho detto che la vita ti dà le buone occasioni nei momenti sbagliati. Esempio: conosci una persona nuova che ti comincia a interessare un po’ (non per forza nel senso di un coinvolgimento sentimentale), ma poi non ci sono davvero le condizioni per poter andare oltre quel primo incontro fortuito. È come se la vita ti facesse desiderare un gustoso piatto di tagliatelle al ragù, dopo una faticosa salita, per poi servirti della carne in scatola senza neanche il contorno.
Federico ha cercato di riportare la discussione sul piano della realtà. Non è sempre così forse? Non è proprio come diceva Seneca? La fortuna non esiste: esiste soltanto il momento in cui il talento (o la preparazione) incontra l’occasione.
Abbiamo poi raggiunto una conclusione su cui eravamo entrambi d’accordo: sappiamo che cercare un lavoro costa fatica, che ottenere un titolo di studio costa fatica, ma sembra ci siamo dimenticati che coltivare delle buone relazioni e trovare le persone con cui vale la pena farlo costano anch’esse impegno e tempo. Forse dovremmo ripetercelo più spesso.
Seguendo un torrente sempre all’ombra (benedetta, vista la giornata molto calda) del bosco, il sentiero conduce alla strada forestale. In più punti ci siamo chiesti se valesse la pena fermarsi in una di quelle pozze cristalline per ristorare i piedi, ma abbiamo preferito resistere fino alla fine per non dover più rimettere gli scarponi.
Tra chiacchiere di politica e energia nucleare, su comoda strada forestale sbuchiamo nel piccolo abitato di Svaizera (Edo giura di aver letto “Svizzera” la prima volta, chiedendosi come potesse essere così vicina), con malghe e baite di legno perlopiù adibite a fienili (alcune in vendita, se può interessare). Neanche ci accorgiamo che un ultimo strappo in discesa ci ha finalmente portato a Caoria (ripasso: l’accento è sulla “i” per i non veneti), così cerchiamo la prima fontana per il troppo rimandato pediluvio ristoratore. Un signore locale, stupito di trovare due persone immerse nella fontana del paese, si è pure preoccupato che non ci prendessimo una broncopolmonite, ma noi eravamo troppo in estasi per dargli retta.
Cosa ci aspetta domani
Altra tappa discretamente lunga con cui abbandoneremo il granito di Cima d’Asta per avvicinarci al calcare delle Dolomiti. Sarà quasi l’opposto di quella di oggi, prevalentemente tutta in salita fino alla quota in cui intravedremo le celebri Pale di San Martino intorno a cui faremo un bel tour tra la quarta e la quinta giornata. Di foto-cartolina ce ne saranno un po’, speriamo.
Giorno Due: respira, sei in Trentino
Dettagli tappa | |
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Partenza | Rifugio Malga Consèria, 1848 m |
Tappe intermedie | Cima Socéde, 2173 m (Sentiero della Memoria) |
Arrivo | Rifugio Ottone Brentari, 2475 m |
Lunghezza | 8.2 km |
Dislivello | +1017/-375 m |
Breve tappa che porta nel cuore pulsante del gruppo di Cima d’Asta, sotto la formidabile Parete Sud della vetta principale, una grandiosa bastionata che precipita fin sulla scura superficie del famoso e omonimo lago alpino. È questo un mondo di granito, simile, almeno come tipo di ambienti, a quello del Lagorai, ma molto diverso dalle vicine Dolomiti. Una caratteristica che salta immediatamente all’occhio è l’elevata presenza di acqua superficiale dovuta all’impermeabilità del substrato roccioso. Zone umide, pietraie, fitti boschi e lunghi solchi vallivi, queste sono le meraviglie di un angolo di Trentino che preserva ancora un’elevata naturalità e una relativamente bassa frequentazione umana, intaccata solo nei pressi del Rifugio Brentari, il più noto e frequentato punto di appoggio di questa area montana.
Dopo una colazione a buffet con yogurt di malga, salutiamo il rifugista (che ci offre pure la doccia) e ci avviamo sull’ultimo tratto del sentiero che geograficamente si trova nella zona del Lagorai. Dopo un paio di alpeggi, arriviamo al Passo Cinque Croci dove troviamo il primo bivio e la prima scelta: saliamo a dare un’occhiata al piccolo museo aperto dedicato alle tracce della Grande Guerra o tiriamo dritto1?
La prima guerra
Quattro anni di lavoro hanno permesso di restaurare alcuni resti del primo conflitto mondiale che ha toccato anche il Lagorai. La cima Socéde è uno di quei luoghi in cui è ben visibile il passaggio: ci sono alcune trincee in legno e un paio di rifugi militari che si incontrano lungo il Sentiero della Memoria.
Nulla a che vedere con ciò che si può visitare – o percorrere – nelle zone del Pasubio, ma è prezioso essere riusciti a recuperare anche questi reperti. Peccato non siano molto visitate perché in questa zona si è davvero in solitaria. Non neghiamo di aver temuto un po’ di dover lasciare gli zaini a un ricovero di pastori per fare la salita e discesa in leggerezza, ma nessun essere umano si è fatto vivo.
Dipendenze
Gli aurai alpini della zona – i numerosi specchi d’acqua che si trovano frequentemente e da cui arriva il nome Lagorai – hanno ispirato un’interessante digressione sulle dipendenze, non soltanto quelle da qualsiasi sostanza. Quali sono? Quante sono? Come le riconosciamo? Non tutte sono dannose, anzi: senza il meccanismo alla base di ogni dipendenza, regolato dalla dopamina, non ci alzeremmo dal divano neanche per mangiare. Però internet, i social, e chissà quale altra invenzione moderna ci hanno assuefatto in due modi almeno2:
Il rifugio Brentari
Cercando di non perdere la traccia del sentiero – sempre ben segnato, ma qualche volta non proprio visibile – arriviamo alla Forcella Magna.
Alla forcella ci accoglie uno strano odore di pesce. Prima di prendere di petto la salita che ci attende, decidiamo di recuperare energie e di mangiare qualcosa. La salita davanti a noi si presenta subito impervia, ma dopo pochi tornanti, il sentiero ritorna più sopportabile. Arrivati a un bivio, imbocchiamo il sentiero 326. Pochi passi e il sentiero si butta letteralmente verso il cosiddetto boalon (canalone) di Cima d’Asta, e perdiamo quota velocemente e anche rovinosamente per uno di noi (giusto un piccolo taglio sulla tibia). Ora siamo sul sentiero 327 in direzione rifugio Cima d’Asta. Vediamo già le bandiere sventolare, e anche i piloni della teleferica ci indicano che il rifugio è vicino. Mentre camminiamo, cominciamo già a fantasticare su cosa mangeremo al rifugio. Finalmente davanti a noi appare il magnifico lago di Cima d’Asta3 e appena oltre anche il rifugio si delinea nella sua interezza.
Le montagne di fuoco
Neanche a farlo apposta, al Brentari incontriamo tre geologi che sono in giro per dei campionamenti. Non in vacanza, ma senza dubbio il loro “ufficio” è di gran lunga migliore del mio. Ci raccontano brevemente che le vicine Dolomiti, generatesi in parte da barriere coralline – Ma c’era il mare qui? Eh già – sono bimbe giovani in confronto al gruppo granitico di Cima d’Asta, le cui rocce hanno sicuramente origine vulcanica (tecnicamente si chiamano ignimbriti). È pazzesco pensare – e ci ricorda anche della nostra insignificanza come esseri umani – che qualche centinaia di milioni di anni fa qui si avrebbe potuto assistere (per modo di dire) a vaste e potenti eruzioni vulcaniche i cui prodotti, solidificatisi lentamente e in profondità, hanno dato origine alla materia di cui è fatta Cima d’Asta. Tutto questo in un tempo che supera largamente i nostri duecentomila anni di esistenza (come Homo Sapiens).
Dopo qualche minuto di contemplazione (senza più gli zaini sulle spalle), ci siamo seduti a gustare due piatti di tagliatelle al ragù di cervo, e poi via con le sole bacchette per salire sulla vetta più alta che avremo modo di avvicinare in questa lunga traversata trentina. Il cielo un po’ coperto – in una giornata tersa si dovrebbe riuscire a vedere il Mar Adriatico e l’Appennino – ma un paio di foto ce le ha concesse.
Senza indugiare oltre, riprendiamo il sentiero della salita e rientriamo alla base sempre in un’ora, chiedendoci più volte come sarebbe vedere l’alba da lassù. Ce la proveremo a immaginare con qualche grappa tipica dopo cena, socializzando un po’ con gli altri inquilini (e pregando che nessuno dei compagni di stanza russi troppo!)
Cosa ci aspetta domani
Altra tappa non troppo lunga (circa 13 km) ma soprattutto tutta in discesa: dai 2475 metri del rifugio Brentari agli 854 del paese di Caorìa (metto l’accento per i non veneti). Forse sarà anche la tappa più difficile tecnicamente: valutata EE, percorreremo un pezzo del sentiero attrezzato G. Negrelli, che passa sotto una cresta dal confortante nome: Cresta delle Streghe.
Giorno Uno: la Magnifica Fiemme e il selvaggio Lagorai
Dettagli tappa | |
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Partenza | Molina di Fiemme, 853 m |
Arrivo | Rifugio Malga Consèria, 1848 m |
Lunghezza | 20.7 km |
Dislivello | +1508/-520 m |
Lunga tappa, con primo tratto su asfalto, che dalla Val di Fiemme, nota per le sue estese foreste, porta nel cuore pulsante del Lagorai, il gruppo montuoso più selvaggio del Trentino. E proprio in questo tipo di ambiente si svolge la prima parte dell’escursione, lasciando spazio in quota a praterie alpine e “aurai”, i minuscoli specchi d’acqua che hanno dato il nome all’intero gruppo. Fra queste scure cime la presenza antropica è marginale, con alcune zone che raramente vengono calpestate da piede umano. Un vero paradiso per gli amanti dei silenzi e di quella natura apparentemente meno spettacolare che pian piano sa conquistare il cuore anche dei camminatori più esigenti1.
Inizio senza paura con la tappa più lunga del giro (21 km e 1600 m di dislivello positivo), lo sforzo nelle gambe alla fine non si è fatto pregare troppo. Partenza con le marce alte, quindi.
Dopo aver attraversato il paesino di Molina di Fiemme, abbiamo percorso la Magnifica valle affiancando il torrente Cadino su una strada asfaltata (un po’ noiosa, e sempre al sole ben caldo di luglio) fino al Ponte delle Stue.
Là comincia il sentiero vero e proprio, che fino alla Malga Cazzorga è stata una carrozzabile sterrata comoda. Qui i boschi di abeti e pini del Lagorai ci hanno regalato più volte un bel sollievo dal sole. Ma ciò che ci ha stupito di più è stato notare, anche qui, i danni devastanti della tempesta Vaia del 2018. Su alcuni pendii o versanti sembra sia passata un’enorme falce affilatissima che ha tagliato alla base qualunque albero o arbusto più alto di qualche metro. Davvero impressionante.
Il sentiero ha toccato il punto più alto presso la Forcella Valsorda (nome interessante), per poi fare un saliscendi fino al Passo Val Cion.
Avevamo preso un buon passo spedito, perciò non ci siamo fermati a contemplare gli alpeggi del Lagorai, complice anche un vento freddino che ci ha fatto compagnia finché abbiamo scollinato. Gambe e schiena – con un inusuale zaino da 8 chili circa – erano ben stanche da chiederci di tirare dritto fino al rifugio, sperando nella possibilità di fare una doccia calda più che poterci connettere a internet per dire che eravamo vivi (la rete cellulare non prendeva neanche per una chiamata 🆘 ). Entrambi i comfort ci sono stati garantiti. Dieci minuti e si fanno le ordinazioni della cena (zuppa di verdure e spezzatino con polenta). Si poteva chiedere altro?
Cosa ci aspetta domani
Tappa abbastanza corta: circa 8 km e quasi 800 metri di dislivello positivo. Sperando di non avere troppa stanchezza residua, sarà una tappa breve e rapida. La meta sembra essere particolarmente interessante e l’ambiente suggestivo: il rifugio Brentari circondato dalle pareti granitiche verticali di Cima d’Asta (che proveremo a salire, senza zaino dovrebbe essere fattibile in circa un’ora).
A domani2!
Giorno Zero: verso il campo base
Forse campo base è un po’ impropria come definizione: Bolzano è soltanto a 262 metri di altitudine, ma sarà comunque il nostro appoggio iniziale. Domani mattina un treno e un autobus ci porteranno in Val di Fiemme, il vero punto di partenza.
Per quanto questo Sentiero Italia 2022 non sarà un’impresa alpinistica ambiziosa, proveremo a fare una cosa che un pochino lo sarà: qui su queste pagine (tag #sentiero italia
) terremo un diario di viaggio a due1, qualche riga in cui raccontare la giornata, cosa abbiamo visto, di cosa abbiamo parlato, le nostre impressioni o emozioni. E se la connessione internet ce lo permetterà, anche qualche foto. Sono già convinto che verrà fuori qualcosa di interessante.
Si parte! 🏔
P.s. I will translate all these pages in English after coming back. Because non-Italian readers are more than welcome!