Posts tagged “hiking”
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Potremmo chiamarla una specie di mitridatismo. ↩︎
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L’angolo del fisico: il punto di rugiada è quella temperatura per cui, a una certa pressione, l’atmosfera diventa satura di vapore acqueo. Un punto di rugiada molto alto porterà probabilmente a una giornata nebbiosa. ↩︎
- Un pranzo degno di tale nome (due burger da McDonalds)
- Circa tre ore di pausa tra l’una e le quattro per evitare il sole più pestifero.
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Poco meno di 500 km. ↩︎
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Forse varrà la pena fare un post in cui provo a spiegare un po’ di gergo di tutti questi materiali usati nell’attrezzatura. Se ricordo bene, ho ancora una laurea in scienza dei materiali 🤓. ↩︎
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Vorrei leggere “Una cosa divertente che non farò mai più” e “La scomparsa di Majorana”. ↩︎
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Un “trail name” è un soprannome che non puoi sceglierti, ma ti verrà assegnato da qualcun altro. Spesso è più facile riconoscere e ricordarsi di alcune persone grazie a questi nomignoli. ↩︎
La zona di comfort
Gli ultimi due giorni mi hanno sconquassato: non solo per la distanza percorsa, ma anche per le prove da superare contro gli elementi (vento, acqua, sole). Ieri i chilometri lungo l’acquedotto sono stati monotoni e pesanti, e dopo la pausa pranzo abbiamo dovuto camminare altri sedici chilometri. Dopo tutto ciò, chiunque penserebbe di aver diritto a un po’ di riposo, ed è stato questo il feeling una volta arrivati al campo: qualche albero, un ruscello vicino e la comodità dell’acqua subito disponibile, e soprattutto finalmente fuori dall’area più sferzata dal vento – questa zona del deserto del Mojave è infatti tappezzata di turbine eoliche più che da pannelli solari.
Purtroppo, era tutto solo un’illusione da fiaba Disney. Di punti comodi (cioè in piano o quasi) praticamente non ce n’erano, e il terreno era duro e sassoso. La stanchezza della giornata mi convince a dormire “alla cowboy”, ossia senza tenda. Ma non appena finisco di preparare la mia postazione, il vento ci ricorda che non è andato da nessuna parte e ricomincia a soffiare a folate abbastanza forti. Cerco così un posto alternativo dove piantare la tenda e lo trovo una ventina di metri risalendo il fiume: perfettamente piatto e su terreno di ghiaia grigia fine, in cui i picchietti entrano come coltelli nel burro e, una volta dentro, tengono alla grande. Soddisfatto, mi do una sciacquata approssimativa, soprattutto ai piedi che raccolgono sempre tutta la terra che riesce a entrare nelle scarpe.
Verso le otto e mezzo siamo già pronti per andare a letto, complice la giornata pesante. Sembra andare tutto (troppo) bene quando mi corico e mi metto a scrivere le due righe giornaliere. Di nuovo, è un’effimera illusione destinata a durare qualche ora soltanto. Infatti, verso le dieci e mezzo, il vento torna alla carica, e stavolta ci fa capire che sta facendo sul serio. Lo si sente mugghiare quando si infila dall’alto e scende nello stretto canyon in cui si trova il campo. Non sono folate, ma vere e proprie bordate che arrivano ogni dieci-venti secondi; come se qualcuno da lassù riuscisse a impacchettare l’aria e lanciarla giù nella valle. Ecco che il terreno così bello compatto e liscio diventa il luogo peggiore dove essersi accampati: ogni folata solleva una manciata di granelli di sabbia che vola rasente al suolo, proprio all’altezza perfetta per infilarsi sotto la tenda. Provo così ad aggiustare l’assetto della tenda e abbassarla di più in modo da dare meno superficie al vento e ridurre lo spazio in cui si può infilare la sabbia. La tenuta migliora e la tenda sbatte molto di meno, ma la sabbia continua a entrare troppo facilmente. Piego una bandana a mo’ di mascherina per respirare un po’ meno sabbia, e l’unica cosa che posso fare è chiudermi nel sacco a pelo e provare a dormire. Poco prima delle cinque, quando è ormai ora di alzarsi per riuscire a partire presto, stimo di aver dormito forse tre ore in tutto. I ventisette chilometri che ci attendono so già che saranno più faticosi del previsto.
Tutta questa riflessione rientra perfettamente in quella che ho già fatta qualche settimana fa sulla zona di comfort. Siamo davvero sicuri di sapere quale sia la nostra? In uno dei video iniziali che avevo pubblicato su Instagram avevo detto, prendendo in prestito le parole di un amico e hiker ben più esperto di me, che la zona di comfort si può espandere attraverso la somministrazione di piccole dosi di disagio1. Ma come molte cose nella vita neanche questa piccola trasformazione avviene in un colpo solo; così come nell’elaborare un lutto attraversiamo diverse fasi, anche qui il primo step riguarda l’accettazione: siamo lì sdraiati nella nostra tenda mentre fuori il vento non ha intenzione di cessare; a ogni folata una manciata di sabbia si deposita su tutto quello che la tenda contiene, compresi noi stessi. Cosa possiamo fare? Possiamo imprecare, urlare, piangere, uscire dalla tenda e cercare la compagnia di qualcuno, ma nulla di tutto ciò cambierà la situazione. L’unica cosa che può darci un (misero) sollievo mentale è accettare la condizione presente, una specie di esperimento di mindfulness in una situazione che è tutt’altro che rilassante. Questa è decisamente una cosa che il trail sta cercando di insegnarmi: qualunque cambiamento vogliamo apportare alla nostra vita dobbiamo cominciare con l’accettare le condizioni attuali. Il problema è che siamo disabituati a ciò, siamo impazienti in tutto e assuefatti dalla possibilità di cambiare qualunque cosa non ci piace della nostra vita, e pretendiamo di poterlo fare subito.
Se c’è una cosa che mi fa spaventare
Del mondo occidentale
È questo imperativo di rimuovere il dolore
— Brunori Sas, “Secondo me”
Risorse
Direi proprio che la parola del giorno è risorse. La giornata è stata eterna sul trail: sfiorati i quaranta chilometri, di cui almeno venticinque di noia mortale lungo il Los Angeles Aqueduct. È famigerato questo tratto del trail proprio per questi chilometri sotto il sole cocente, senza un briciolo di ombra o acqua per diverse miglia. L’usanza vuole che si faccia di notte, ma Fabio e io abbiamo preferito partire presto piuttosto che rinunciare a un po’ di riposo notturno. Alla fine, a parte la noia di un percorso sempre uguale – e tolti i fastidi per un paio di vesciche che si ripresentano dopo qualche ora di cammino – non è stata così tremenda. È stata certamente impegnativa, ma posso dire di esserci arrivato abbastanza preparato, perlomeno sulla resistenza mentale. Domani il programma è arrivare alla prima intersezione con una strada nel primo pomeriggio ed essere così in città entro sera.
Nella noia di oggi, era inevitabile non pensare a quanto questo deserto del Mojave sia un’enorme risorsa: acqua, sole, e vento, per dire le più importanti. Quindi energia – anche se l’acqua serve per altri scopi. Da fisico, è inevitabile non riflettere sull’onnipresenza del concetto di energia. Non ne abbiamo una definizione precisa, ma sappiamo benissimo come maneggiarla, ed è evidentemente un bene essenziale per qualunque società. Infine, c’è l’energia sotto forma di cibo che mi carico tutti i giorni sulle spalle, un carico più o meno pesante (spesso troppo!). Ho già approfondito sul blog perché sarebbe più corretto parlare di “energia libera”, è un discorso affascinante e un po’ complicato.
Avrei potuto ascoltare un sacco di roba, mentre mi sono limitato a due cose soltanto: la puntata di ieri di “Morning” e un messaggio audio di Andre e Cristina. Erano dieci minuti di audio e mi hanno tenuto compagnia per un po’, perciò grazie a entrambi! 🙏 Tra le tante cose, Andre mi ha ricordato che non si può rincorrere una persona che non vuole essere trovata (o non può). Non pensare perciò che una mancata risposta voglia dire che io sto facendo qualcosa di sbagliato, è l’altra persona a non voler comunicare. Spesso è difficile accettarlo e dispiace disinvestire in una relazione, ma di certo non possiamo dedicare un tempo esagerato a qualcuno che non lo vuole – e i suoi motivi possono essere i più diversi.
Una riflessione sulle amicizie
Ho pensato a lungo alla questione del titolo e vorrei provare a riassumere un paio di idee qui. Due parole sulla giornata prima.
Abbastanza lunga, più di 28 chilometri e mille metri di dislivello positivo. La mattinata è stata agile fino alla strada che avevamo considerato di prendere ieri per raggiungere Lake Hughes. Dopo una pausa, il trail ha ripreso subito in salita decisa, e il sole era già bello che uscito dalle nebbie mattutine. La notte, infatti, l’abbiamo passata in mezzo alle nuvole – o meglio, era già mattina molto presto – e ci siamo svegliati con la tenda fradicia. In più, visto il vento di ieri sera, io l’avevo montata in assetto “basso”, perciò meno volume disponibile per il ricambio d’aria. Ma il problema era l’estrema umidità (e il punto di rugiada1. Dopo la salita di alcuni chilometri, entriamo in una burn zone del 2013: il solito ambiente desolante a cui ci siamo ormai abituati. Alberi morti bruciati che a volte rinascono dalle proprie radici in forma arbustiva; ci vorranno decenni prima che si ristabilisca un ambiente simile al precedente (se non brucia di nuovo tutto prima). In questo regno di desolazione, piante colonizzatrici come il temuto “poodle-dog bush”, prendono il sopravvento e si riproducono ovunque in ambienti disturbati dagli incendi. Oggi era facile distrarsi e toccarne qualcuna per sbaglio. A volte era come dover camminare in un mare pieno di meduse.
Ho dedicato ai podcast soltanto il pomeriggio, mentre stamattina l’ho passata a riflettere (di nuovo) su un’idea di legame amicale su cui avrei piacere di confrontarmi con altre persone. Ci sono delle relazioni che mi sembra si possano chiamare “amicizie transazionali”: io faccio questo perché tu hai fatto quest’altro. Ti rispondo perché mi hai scritto. Ecco: io non credo che queste si possano chiamare amicizie intime, proprio per questo livello di fare qualcosa solo in risposta ad altro. Un’amicizia è invece un comportamento spontaneo, non serve un motivo per scrivere “Come va? Vorresti raccontarmi qualcosa?” a una persona amica. Perché dovrebbe? Posso anche registrare un messaggio vocale per dire che sono arrabbiato o deluso o contento o insoddisfatto o che ne so: ti scrivo perché so che c’è qualcuno che mi ascolta. Faccio fatica a pensare che certe persone non abbiano davvero tempo. Con ciò significa che pretendo le loro attenzioni costantemente? No, ognuno ha la sua vita, ma certo mi aspetto un comportamento che credevo derivasse dall’essere amici. E invece vengo ancora deluso dalle mie stesse aspettative. Forse dovrei semplicemente rivedere quelle e non pretendere che certe persone si comportino come loro stesse non vogliono fare. Sono le nostre azioni a definire e mostrare ciò che ci importa davvero.
Quaranta giorni e quaranta notti
Al quarantesimo giorno sono ancora nel deserto. Un po’ come uno dei personaggi più celebri di uno dei libri più diffusi, letti, e conosciuti in tutto il mondo.
È stata una giornata più lunga del previsto: abbiamo deciso all’ultimo momento di non fermarci al primo campo – non c’era nessuno, ma non avremmo avuta neanche l’acqua – e abbiamo proseguito per altre quattro miglia circa, scavalcando il promontorio che abbiamo salito nel primo pomeriggio e raggiungendo la valle attigua. Sempre deserto, sempre la solita vegetazione. E sempre il solito caldo abbastanza intenso almeno fino alle quattro. Però adesso abbiamo un ombrello – non sempre semplice da allestire in maniera da avere le mani libere.
Ho pensato parecchio allo zaino (ancora), perché mi è venuto il dubbio che potrei avere preso una taglia troppo grande. Potrei aver già perso un po’ di massa grassa proprio intorno alla vita, e ciò spiegherebbe perché la cintura lombare è quasi a fine corsa quando la allaccio con lo zaino a pieno carico (in peso). Non è che abbia molte opzioni: non potrei certo fare un reso di questo che ho usato per un paio di settimane. L’alternativa sarebbe prenderne un altro, ma è davvero necessario? E come faccio coi tempi di consegna? Non ne ho davvero idea perché non ho più avuto internet una volta uscito da Agua Dulce. Meglio pensarci su qualche altro giorno prima di fare un altro acquisto impulsivo.
Il corpo non è proprio al top, anzi: oltre a due vesciche che ricompaiono ogni volta che mi rimetto a camminare – le scarpe mi piacciono, ma i miei piedi non sembrano essere d’accordo – ho un fastidio al polpaccio destro. È una specie di rigidità muscolare, forse una contrattura profonda. E ci mancano almeno tre giorni per arrivare a Hiker Town. Ho scoperto che la fisioterapista itinerante sarà la da mercoledì prossimo, perciò potrebbe essere una buona idea provare a sentire cosa mi dice. Il fastidio all’altra gamba non è certo sparito, ma è certamente diminuito. Forse lo stretching (che però non faccio sempre, di certo non ogni due ore), forse il costante allenamento.
Ieri sera sono crollato quasi mentre finivo di scrivere e non ho detto nulla sul posto in cui ci siamo fermati. Trenta dollari e Farmer John – non si capisce bene che cosa coltivi, probabilmente anche la sostanza di cui fa più uso a giudicare dall’odore della sua macchina – ti lascia vagabondare nel suo “deposito materiali”, perché questo è. Svariati capannoni, vecchi garage di legno, casupole messe in piedi alla bell’e meglio: un incendio raderebbe al suolo tutto, come il terremoto a Norcia ha fatto con la chiesa medievale. Ovunque c’erano quei piccoli insetti che noi chiamiamo forbicine, con due tenaglie sulla coda. Di per sé non fanno nulla, ma invadono qualunque cosa: ne avevo almeno quattro nella maglia e altrettante nei pantaloncini stesi ad asciugare. Senza contare quelle di cui mi sono sbarazzato quando ho sbattuta la tenda stamattina. Non sono serpenti, e non danno così fastidio; però so già che qualche persona potrebbe rimanere inorridita a leggere queste righe. Forse ci siamo abituati a degli standard di pulizia e decoro ben al di sotto della nostra vita normale.
Le ultime montagne
Ed eccoci a quattrocento miglia sul PCT 🎉 Alla prossima occasione è d’obbligo festeggiare. Ora ne mancano solo altre 2200, miglio più, miglio meno.
Tra oggi e domani finiremo questa parte montuosa cominciata prima di arrivare a Wrightwood. Una volta tornati “in pianura”, le montagne torneranno tra qualche centinaio di miglia, e allora si farà sul serio perché sarà la Sierra Nevada. Sono sia curioso sia intimorito da questo lento avvicinarsi della sezione considerata più difficile di tutto il trail. Sarò all’altezza?
È da un po’ di giorni che dico di voler cominciare a leggere un libro, ma non lo faccio mai. Domani sarà una giornata altrettanto lunga – ci aspettano altri trenta chilometri – perciò l’occasione non mancherà. Oggi però ho ascoltata solo una puntata di “Globo”, assai interessante su Trump e il suo posto nella politica e cultura americana. Non sono più al passo con “Morning” perché internet è assente da qualche giorno, e quando c’è non è così stabile. Ma va bene così.
Baden-Powell, secondo tempo
Ieri ci siamo soltanto avvicinati, mentre oggi abbiamo raggiunta la vetta dopo un’intera mattina di salita impervia nella neve, seguendo tracce pessime – sia per lo stato della neve, sia perché erano righe dritte secondo la massima pendenza. Come sempre succede in montagna, arrivare a una vetta è solo la metà: poi c’è la discesa. E così è successo anche oggi. Su e giù per creste innevate e boschi delle ormai abituali conifere (giganti, come sempre), perdendo e riprendendo il trail che si nascondeva facilmente nella neve rimasta. Senza GPS o una mappa, sarebbe garantito perdersi più volte.
La fatica è stata notevole, i chilometri non molti perché si procedeva davvero lenti – un assaggio di ciò che sarà all’ordine del giorno in Sierra Nevada a giugno – ma non ho trovata la giornata così pesante come la traversata di Mission Creek: qui almeno lo sforzo fatto è stato degnamente ripagato con una vetta, alcune belle vedute della valle da un lato (quello di Los Angeles), e della piana desertica dall’altro. Ovviamente noi siamo diretti verso il deserto perché non ne abbiamo ancora avuto abbastanza.
Ma il regalo più bello della giornata è stato avvistare un orso bruno (o forse orso nero) in libertà. Sarà stato a cinquecento metri da noi e correva nella direzione opposta, ben poco interessato ad avvicinarsi a degli esseri umani. Fabio è riuscito a fargli anche un breve video con il massimo zoom del suo telefono. Vedere dal vivo questo animale nel suo ambiente, in cui noi siamo gli “intrusi”, è stato davvero toccante e meraviglioso. Sì, stava scappando da noi, ma era libero di vivere dove e come meglio credeva. Era davvero un animale wild.
A fine giornata, raggiunta una strada e un parcheggio per escursionisti giornalieri, abbiamo deciso di provare a trovare un passaggio verso il campo prescelto. A voler fare i puristi, il trail saliva su una cima minore, girava di qua e di là per poi raggiungere la strada. Una chiusura ci avrebbe comunque obbligato a riprendere la strada per i restanti chilometri. Eravamo tutti abbastanza stanchi e a nessuno importa di tornare a casa dicendo “ho percorso ogni singolo miglio del PCT”. Ad alcuni invece sì, queste sono le regole che si sono dati. Camminare dal Messico al Canada, passo dopo passo, nessuna eccezione (salvo quelle imposte per forza maggiore, che arriveranno). Se a loro va bene così, nessuno può interferire. Sanno cosa stanno facendo e i rischi che corrono. Hike your own hike.
Ci mancano ancora 50 miglia ad Acton, il prossimo punto di resupply. Non sono poche, ma abbiamo fatto davvero pochi chilometri in due giorni. Domani e martedì dovremo cambiare un po’ marcia se vogliamo arrivare entro mercoledì, quando il cibo comincerà a scarseggiare. Io ne voglio portare sempre di meno perché odio lo zaino pesante e ingombrante – continuo a guardare con invidia malcelata chi ha sulle spalle uno zainetto da quaranta litri super compatto – ma poi finisco per mangiare parecchio perché il mio corpo me lo richiede. Prima o poi dovrò fare una scelta.
Baden-Powell & friends
Dire che ce la siamo presa comoda farebbe ridere. Nessuno aveva davvero intenzione di partire presto oggi, ma io mi sono comunque svegliato poco prima delle sei. A mezzogiorno eravamo ancora in casa a sistemare la roba. E va bene così. L’idea di fare salita-vetta-discesa del Baden-Powell in giornata era fattibile solo fossimo partiti davvero presto.
Finiti i preparativi, cerchiamo un passaggio vicino al supermercato, qualcuno che voglia accompagnarci fino al punto classico in cui si riprende il PCT per andare verso la cima. Pochi chilometri e saremo al parcheggio da cui tutti gli escursionisti giornalieri partono per qualunque giro nei dintorni.
Non abbiamo troppa fortuna con l’autostop, perciò Judith fa un giro dal benzinaio dall’altra parte della strada per chiedere direttamente se qualcuno sta andando in quella direzione. Eric è lì a fare benzina e ci dice subito di sì. Appena saliti in macchina, scopriamo che non è una persona qualunque: ex-giocatore professionista della NHL (ha giocato anche in Europa), ha perso entrambe le gambe dal ginocchio in giù perché è rimasto bloccato per otto giorni in inverno in un’area remota della Sierra Nevada 😰🥶 Si ritiene un miracolato a essere riuscito a tornare a casa, in qualche modo. Per quanto non troppo famosa, un libro e un film si sono ispirati alla sua vicenda. Ci ha illustrato un po’ la zona – pare che il film “Wild” sia stato girato in parte qui perché molto vicino a Los Angeles e più facile da raggiungere invece che portare una troupe in Sierra Nevada – ci ha portati in un punto panoramico dove osservare la vetta che avremmo salita, e ci ha lasciato il numero – dopo averci chiesto di fare una foto insieme, come se fossimo noi le celebrità – per ogni evenienza. “Chiamatemi o fatevi sentire se c’è qualcosa che non va. Sono abbastanza bravo a tirarmi fuori da situazioni estreme”. E tutto questo è successo letteralmente per caso, fermando il primo tizio incontrato a una pompa di benzina.
Cosa significa “ultralight”
Giornata decisamente più leggera di ieri, anche se ho camminato per trenta chilometri. Però almeno due cose hanno fatto una notevole differenza:
Potremmo dire che la sosta alla catena di fast food più nota del mondo è stata la spinta principale dei primi due terzi della giornata. Volevamo arrivare là e ripagarci con quel cibo-spazzatura che solo con questo regime calorico giornaliero ci può far bene. O meglio: non può farci davvero male; rimane cibo assai poco equilibrato e di certo non salutare. Mi sono anche comprato due cheeseburger “da asporto” con extra insalata e pomodori 🤤 Ne avrei mangiato volentieri un terzo a cena. Non ho memoria in vita mia di un’occasione in cui ho mangiato hamburger di McDonalds a pranzo e a cena. Ma d’altronde non ho mai fatto un viaggio né un trekking come quello che sto facendo ora.
Ho ascoltato diversi podcast (perlopiù puntate di “Morning” accumulate nei giorni precedenti), ma non ho ripreso il libro. Anzi, ho deciso di rinviare la lettura di Sciascia a un momento migliore in cui potrò dedicargli più attenzione, e domani riprendo Jack Reacher ne “I dodici segni”. Domani comincia anche il Salone del Libro 📚😍 Dovrò sentire Andre e Cristina e chiedergli di raccontarmi qualcosa, se dovessero andarci.
Un discorso che ho ripetuto con me stesso oggi è cominciato molto presto stamattina, quando ho notato un tizio che partiva poco prima delle sei con uno zaino minuscolo (sarà stato massimo un 30 litri). Due giorni fa aveva camminato ben 32 miglia, cioè 51 chilometri. Fa senz’altro parte di quel gruppo di persone che non rivedrai mai più sul trail perché camminano troppo e veloce. Hike your own hike1. Vedere il suo zaino mi ha fatto pensare “lui sì che è un vero ultralighter”. Poi ho riflettuto: non conta il peso materiale che ti porti dietro, ma il peso di tutti i comfort (o vizi, per alcuni). Vivere ultralight è una soddisfazione enorme perché ti fa rendere davvero conto di cosa hai bisogno, di ciò che ti serve per davvero. Però significa anche avere assai chiaro a che cosa sei disposto a rinunciare: e non si tratta solo di superfluo, ma anche di ciò che altri ritengono un bene essenziale – non so, un’automobile, per esempio, anche quando mi renderebbe la vita più semplice. Io penso di essere abbastanza minimalista nella mia vita quotidiana, ma sono molto interessato a incorporare ciò che sto imparando (e imparerò ancora) qui sul trail per mettere in pratica il mantra di “Your Money or Your Life”: quando hai compreso qual è il tuo enough, tutto il resto è roba inutile e ingombrante2 – e non si tratta soltanto di roba materiale.
Donata, Claudia, Andre e Cristina mi mandano spesso messaggi vocali. Semplici, giusto due racconti di cosa stanno facendo e come prosegue la vita “a casa”. E fanno molto piacere e buona compagnia. Grazie a tutti, quindi, a distanza! 🤗
Dilaniato, dopo un mese di cammino
Trentaquattro chilometri e un paio di piedi così indolenziti come mai mi ricordavo hanno reso questo anniversario sul trail il giorno in assoluto più stancante. Sono arrivato al campo devastato; ho dovuto prendermi un ibuprofene perché mi togliesse un po’ di dolori muscolari e riuscissi a montare la tenda e approntare le cose per la cena. Almeno siamo in un campground attrezzato, perciò ci sono tavoli, fontanelle per l’acqua, e cessi pubblici. Speravo di riuscire ad andare in bagno, ma ero troppo stanco anche per quello; persino per farmi una doccia (che però costava $1, che io non avevo in monete). Però sono finalmente in piano con la tenda, perciò spero di dormire decentemente stanotte. Devo imperativamente riposarmi come si deve, perché domani sarà un’altra giornata impegnativa – ma senza dubbio più leggera di oggi. Lo spero davvero.
Nota a margine sull’attrezzatura: speravo che le scarpe del La Sportiva si comportassero meglio, e invece mi continuano a procurare vesciche sui calcagni. Come se non ci fossero già abbastanza fastidi.
Alle Cascate di Rauros
Anzitutto: ho percorso trecento miglia1 sul PCT 🎉
Nella lista delle cazzate devo includere il detour di oggi per il cambio dello zaino. Quattro ore (e un buon hamburger) per sbarazzarmi dell’Unbound da 40 litri (un po’ mi è dispiaciuto lasciarlo andare 😭) e recuperare un Durston da 55. Il materiale non mi entusiasma (avrei preferito quello tipo Dyneema2, ma ho dovuta fare una scelta tra disponibilità ed estetica/gusto. Dato che quello da 40 era diventato una tagliola per le mie spalle, ho preferito fare il cambio quanto prima. Mi preoccupa più quanto resisterà all’acqua di una pioggia intensa, ma in fondo non credo faccia tutta questa differenza. E così ho un altro zaino da aggiungere alla collezione. Evviva!
Giornata bella intensa anche oggi, e temo di stare inseguendo un po’ troppo le persone che camminano davanti a me o mi superano. Non credo vadano così tanto più veloce di me, ma basta anche un dieci percento e la distanza diventa incolmabile fino a quando ci si ferma. Amen. Ricordiamoci sempre che le regole di questo mio PCT le decido io: non Fabio, non Alex, né chiunque altro più veloce o lento di me.
Sono ritornato un’altra volta sulla questione dei social, e sul perché credo che, a lungo andare, siano dannosi per gran parte delle persone, me incluso. Ho citato Seneca e, di nuovo, Lanzaretti perché credo riprenda anche lui un po’ il filosofo latino. Non mi dispiace camminare da solo, ma non ho ancora provato a essere davvero da solo: c’è sempre qualcuno che conosco e che “mi aspetta” al campo a cui sono diretto. Arriverà anche il momento di qualche giorno completamente da solo.
Domani vorrei cominciare ad ascoltare qualche libro. Non so decidere se continuare Jack Reacher (anche se non mi ricordo moltissimo il libro che ho cominciato qualche mese), oppure cominciare David Foster Wallace o Sciascia3, entrambi libri brevi (qualche ora al massimo). Mi tengo anche la puntata di oggi di Morning non ancora ascoltata perché sarà una lunga giornata: probabilmente faremo un altro stretch da trenta chilometri, quindi bisognerà prenderla bene e avere tanta roba con cui riempire il tempo.
Ci è andata bene
Se così non fosse stato, non sarei a scrivere qui anche stamattina. Non posso dire di stare benissimo, ma mi sembra che la febbre sia passata, anche se l’appetito non è ancora tornato (sono ormai diciotto ore che non mangio).
Mi sono svegliato alla solita ora, intorno alle sei, ormai abituato alla routine in tenda. Ci sarebbero parecchie cose da fare oggi, ma bisogna vedere come staremo. Dobbiamo anche gestire la prenotazione dello chalet in cui siamo – trovato all’ultimo momento ieri prima di tornare indietro e annullare la tappa giornaliera – e capire di quanto tempo avremo bisogno per recuperare davvero. Siamo partiti domenica scorsa da Banning, e l’attraversare Mission Creek più le San Gorgonio Mountains è stata davvero una fatica improba1: non è normale che dopo questi quattro giorni il corpo non abbia bisogno di calorie. Anche adesso, seduto in poltrona in soggiorno, sento il mio stomaco sottosopra, come se stesse ancora digerendo le due misere piadine di ieri.
Abbiamo anche scoperto che pure Alex, uno del gruppo di tedeschi con cui stiamo camminando, è stato male ieri sera. È improbabile che una cosa così rapida sia dovuta a qualche batterio nell’acqua; più probabilmente si tratta di un virus intestinale2. Ma la domanda vera è come l’abbiamo preso? Chi ce l’ha passato, visto che nessuno di noi condivide cibo o acqua e siamo costantemente all’aperto?
Una cosa (anzi, forse due) positiva c’è: siamo in una città abbastanza grande fornita di tutti i servizi essenziali, incluse guardie mediche e farmacie. Ma soprattutto: ieri abbiamo fatta la scelta migliore che potevamo fare: rinunciare a proseguire e trovare un modo per tirarci fuori dal trail quanto prima. Non voglio neanche immaginare come sarebbe stata la notte scorsa se l’avessimo passata in tenda.
Sagge decisioni da fare in montagna
Poche foto per una giornata parecchio difficile. Partito benissimo con un sacco di energia e voglia di camminare quanto più possibile per accorciare la distanza da Big Bear, già a metà mattina qualcosa si è incrinata: Fabio è stato male dopo colazione, senza alcun apparente motivo – abbiamo data la colpa a uno Snickers, ma aveva ben poco senso. Nel giro di qualche ora, intorno al momento in cui avremmo voluto fare la pausa pranzo, anche Sarah è stata male, e molto peggio di Fabio. Comincia a farsi strada l’idea più ovvia: acqua contaminata, benché nessuno di noi abbia mai bevuto senza prima filtrarla. Però anche i filtri possono essere difettosi o noi disattenti durante l’operazione – basta poco perché un filtro perda un po’ d’acqua sporca che si va a infilare nella bottiglia di quella pulita. Mentre Sarah è piegata da conati di vomito ogni venti minuti, Fabio e io facciamo un test ai nostri filtri, e tutto sembra okay. Io poi non ho alcun sintomo, avevo appena finito di gustarmi due piadine al tonno.
Mentre proviamo a elencare tutte le cause possibili che ci accomunano, non ci sfugge che dobbiamo fare una scelta e anche rapidamente; sono quelle situazioni in cui, soprattutto in montagna, bisogna avere il coraggio di rivedere o cancellare i propri piani perché gli esiti potrebbero essere infausti. Una strada che porta a Big Bear passa a circa settecento metri da un punto acqua che abbiamo oltrepassato un chilometro e mezzo prima. Con parecchia fatica di Sarah, riusciamo a tornare indietro (ci avremo messo il triplo del tempo dell’andata); mentre Fabio, che nel frattempo sta un po’ meglio, sta con lei al punto acqua, io raggiungo la strada statale nella speranza di trovare qualcuno che si fermi per aiutarci. Dopo una decina di minuti di autostop senza successo, un gippone nero quattro per quattro si ferma, e due uomini di rientro dal lavoro mi chiedono se abbia bisogno: avevo provato ad attirare l’attenzione delle macchine mettendo due zaini a bordo strada, sperando che si intuisse che non stavo cercando un passaggio in città per pigrizia.
L’uomo alla guida è subito gentile e disponibile e convince il socio un po’ riluttante a liberare i posti dietro dai loro attrezzi di lavoro. Gli dico che i due amici sono a settecento metri lungo la strada, così lui decide di portare giù il pick-up fino al punto acqua.
Arriviamo a Big Bear alle cinque passate, tutti e tre allibiti di quanto siano state gratuitamente gentili le persone che finora abbiamo incontrate in prossimità di qualche città. Dopo una doccia, ci cominciamo a chiedere se qualcun altro del gruppo con cui stavamo camminando fosse stato male, e facciamo a malapena in tempo a tornare dal supermercato con cento dollari di cibo (perlopiù frutta e verdura), che anch’io comincio a sentirmi poco bene. Nel giro di un’ora è evidente che mi sia venuta una febbre parecchio alta, anche se non ho gli stessi sintomi degli altri due. Mi bevo una tisana calda, e l’unico posto in cui riesco a stare è sdraiato sul divano nel mio sacco a pelo, nonostante ci siano almeno venti gradi in casa. Non prendo nulla per la febbre – se il corpo la causa, ci sarà un motivo – e mi addormento nel giro di qualche minuto.
Cosa vorrebbe contenere il mio cammino?
Seconda giornata di fatica improba perché abbiamo dovuto risalire la restante parte di Mission Creek. Col senno di poi, avrei tranquillamente saltata l’intera sezione. Ora siamo a trenta chilometri da Big Bear, e la tentazione di seguire un paio di persone del gruppo che hanno intenzione di arrivarci domani sera c’è. Però so che il mio corpo non reggerebbe; ci riuscirei, sì, ma pagherei un prezzo altissimo. Per che cosa poi? Arrivare un giorno prima dove? Ho comunque intenzione di fermarmi un giorno e mezzo, perciò la fretta non ha davvero senso. Non vedo l’ora di essere di nuovo in città per potermi riposare come si deve. Mangiare e riposare. Voglio anche fare due conti più precisi di quanto mi è costato finora il viaggio.
Camminando lungo il letto del fiume, ci siamo chiesti più volte dove fosse il sentiero “originale”. Io ho detto che in quel momento non stavamo camminando davvero sul PCT perché non esisteva più, perciò saltare o meno quella sezione non avrebbe cambiato molto. Al che mi è stato risposto: se sei qui perché vuoi camminare dal Messico al Canada, allora conta; devi percorrere a piedi l’intera distanza. Io trovo che un traguardo del genere sia un feticcio: non ci credo che qualcuno possa essersi imbarcato in un viaggio del genere solo per camminare tra due punti arbitrari del globo. Fare un passo dietro l’altro solo per fare qualcosa di diverso o incredibile (da raccontare magari). Il cammino è un contenitore, è un mezzo per un fine: hai intenzione di riempirlo soltanto di passi? O di sabbia, aghi di pino, foglie secche, neve o che altro?
Dino Lanzaretti, un viaggiatore e esploratore italiano che ho scoperto proprio qui sul trail guardando un po’ di suoi video su YouTube, ha detto che un qualsiasi viaggio può fallire solo se lasci che gli altri dettino le regole. Se invece sei tu a decidere perché stai facendo questo viaggio e che cosa ti spinge ad andare avanti, non potrai mai davvero fallire.
Il disastro di Mission Creek
Altra giornata dalla fatica improba. Forse la peggiore finora perché la fatica non è stata affatto ripagata. Abbiamo dovuto camminare per circa quindici miglia nel letto di un fiume perché il percorso del trail è stato spazzato via da una tempesta ad agosto del 2023. Non ho fatto moltissime foto, anche se stamattina ci sono state un paio di occasioni sul San Jacinto, ormai in lontananza.
Oggi è cominciata la quarta settimana di cammino. Domenica prossima, prima di ripartire da Big Bear, sarà d’obbligo commemorare questo primo mese. Come sta andando? Penso di essere ancora troppo vicino alla partenza, ma si comincia ad ingranare la routine ormai.
Ho chiesto ai tre compagni di cammino se avessero qualcosa di cui sentiranno particolarmente la mancanza; mi hanno risposto di no, nulla in particolare. Può essere davvero così? Nulla che gli sia venuto in mente e per cui vorrebbero poter essere altrove e non da qualche parte lungo il PCT?
La mia risposta è stata il Salone del Libro di Torino. Non è certo l’evento più importante, ma è stato il primo a venirmi in mente. Ci sarei andato con qualcuno e là avrei avute diverse occasioni di incontrare un po’ di amici che ho incontrati negli anni intorno al mondo di editoria, libri, e scrittura.
Bye bye San Jacinto
Quattro giorni e non so più quanto dislivello (solo oggi, più di mille metri). È stata una cavalcata molto impegnativa, difficile mentalmente e fisicamente. Mi ha messo alla prova diverse volte, ma alcuni ambienti attraversati ci hanno lasciati senza fiato.
Arrivato a fine giornata, dopo venti estenuanti chilometri, scopro che il posto tenda dove stavamo tutti pensando di fermarci è pessimo: un vento forte da ovest rende inagibili quasi tutte le postazioni – ovviamente chi è arrivato prima si è preso le migliori. Così, un po’ deluso e un po’ arrabbiato – con chi non si sa, perché vento e acqua non fanno preferenze né portano rancore – ho mangiata una barretta, preso un ibuprofene per il ginocchio, e mi sono rimesso in marcia. Altri cinque e rotti chilometri per un posticino instabile e in pendenza. Il vento non cessa e mi riempie di sabbia la tenda, ogni tanto piove, e io continuo a scivolare sul materassino. Sarà una notte non proprio al top, ma questo è il meglio che sono riuscito a trovare oggi.
Sto continuando a registrare le mie letture dal libro, ma non ho mai avuto internet fino a stasera – e anche qui va e viene. Recupererò a tempo debito tutto gli aggiornamenti.
Che cosa mi sto dimenticando? Forse qualcosa della vita che ho messa in pausa e mi sembra così lontana, non lo so. Vorrei tanto potermi fare una doccia, mangiare qualcosa, e tornare per un breve periodo alla civiltà. Intanto abbiamo superato le duecento miglia 🎉
San Jacinto e le Alpi in California
Notte miserabile ieri: stanco morto, devastato dalla lunghezza e inaspettata difficoltà del sentiero, il forte vento notturno ha fatto il resto e mi ha impedito di riposare come avrei voluto e dovuto. Perciò oggi il problema muscolare al ginocchio si è presentato ben prima del solito.
Ambiente ancora prettamente alpino. Boschi di altissime conifere, molte cadute e spezzate da vento e temporali – apparentemente questo versante di San Jacinto è stato risparmiato dagli incendi. Un ambiente familiare anche per le quote toccate: punto più alto intorno ai 2700 metri, che per fine aprile è parecchio in alto. Nell’ultimo tratto di oggi, enormi massi su cui si erano frantumati i mastodontici tronchi mi hanno fatto immaginare una mitologica guerra tra alberi e rocce di queste zone, come se fossimo nella Terra di Mezzo: Ent contro giganti rocciosi in granito, non si per quale primato.
Giornata corta (circa 15 chilometri) di quasi riposo, in preparazione alle ultime due che ci attendono per concludere questa sezione breve ma intensa, in cui le Alpi hanno trovato un posto persino nel sud della California.
Siamo passati dal facile e scorrevole deserto a un sentiero prettamente alpino: rocce granitiche, pini e abeti enormi morti per gli incendi e sradicati dal vento, salite tortuose su tratti di sentiero esposto. In più, la neve, che è comparsa in più punti superata una certa quota (credo fossero i 2100 metri).
È stata anche una giornata molto difficile per me: sono andato quasi nel panico quando ho smarrito il sentiero. Tirava un forte vento da ovest, ero su un punto esposto, e il sentiero faceva uno stretto tornante a sinistra. Non riuscivo a trovare dove girasse. Una volta trovatolo, l’ho perso di nuovo poco dopo, perché gli alberi caduti erano talmente tanti che confondevano diversi percorsi mezzi battuti tra la vegetazione bassa. Ho urlato, ho imprecato contro tutto e contro i tre del gruppo che non mi avevano aspettato, pur sapendo del mio problema al ginocchio e dell’evidente difficoltà di questo tratto del trail. Ho avuto paura di non riuscire a trovare un posto tenda decente, ho avuto paura che arrivasse il tramonto e io non avessi trovato un posto ragionevolmente sicuro dove mangiare e dormire. Mi sono sentito (di nuovo) un nulla insignificante, talmente piccolo che la Natura – abusiamo di questo termine generico – mi avrebbe potuto schiacciare in un istante. Non l’ha fatto però, mi ha dato l’occasione di riprendere il controllo di me stesso, di guardare la mappa sul telefono e ritrovare l’orientamento verso il trail.
Ora sono qui, in tenda con una bottiglia d’acqua calda tra i piedi, a 2520 metri di quota, pregando non so bene chi o che cosa perché non faccia salire troppo il vento. La temperatura dovrebbe scendere parecchio (intorno ai 3 gradi), ma l’effetto del vento a questa quota ci farà andare tranquillamente sotto zero. Questa è stata la giornata in assoluto più difficile di tutte, sotto qualunque punto di vista. Spero di riuscire a dormire abbastanza bene e senza patire troppo il freddo.
San Jacinto Wilderness
Cinquanta miglia e quattro giorni per attraversare la catena montuosa di San Jacinto. Speriamo che le previsioni non siano troppo avverse: siamo già saliti ben oltre la solita quota – siamo quasi a duemila metri stasera – e sembra che fino a venerdì ci sia un abbassamento della temperatura a causa di una piccola, forse innocua, perturbazione. Non dovremmo rischiare l’acqua, ma probabilmente arriveremo vicino allo zero poco prima dell’alba, forse anche qualche grado sotto a causa del vento.
Ho deciso che sul blog pubblicherò dei brevi audio – quando avrò a disposizione internet – in cui leggo alcuni estratti dall’unico libro di carta che continuo a portarmi dietro: “L’ebbrezza del camminare” di Émeric Frisset.
Acqua💧
Poco meno di venti chilometri alla Highway 74, cioè il ritorno a qualcosa che potremmo chiamare civiltà. Il ginocchio è ancora conciato male dopo una mattina di saliscendi; senza un ibuprofene non sarei arrivato senza dolore al campo anche stasera. Però domani, nonostante un dislivello positivo cumulativo di quasi 700 metri (sempre che l’app che uso faccia i conti giusti, e non mi fido troppo), arriveremo al tanto agognato Paradise Valley Cafe. Dovremo poi trovare un posto dove dormire prima di spostarci verso Idyllwild, ma ci penseremo domani sera.
Oggi è stata la giornata più difficile finora sul fronte risorse idriche. Zero fonti affidabili se non un minuto rigagnolo fangoso – l’acqua infatti ha un retrogusto molto ferroso – a circa metà tappa. In questa prima parte del PCT, che durerà ancora parecchio (le sezioni desertiche difficili ci aspettano più avanti), la chiave di volta di ogni giornata è davvero l’acqua. Non il posto dove metterai la tenda o dove mangerai, ma quanto a lungo dovrai camminare prima di trovare altra acqua. E sembra assurdo pensare che, quando (e se) arriverò in Sierra Nevada, l’acqua diventerà invece un ostacolo: i torrenti in stile alpino che dovremo guadare più volte saranno i nostri peggiori nemici, ossia i punti oggettivamente più pericolosi del sentiero.
In questi giorni sto camminando con un gruppo di cinque persone: oltre a Fabio – che ora cammina molto più veloce di me che ho un ginocchio acciaccato – ci sono Judith, danese che ha interrotto una thru-hike nel 2022 per un infortunio; Tina, tedesca che adora noodles piccanti con burro di arachidi per cena; Jerky, trail name1 di Lena, una ragazza franco-belga, molto veloce anche a lei a camminare nonostante lo zaino bello grosso (un sessanta litri pieno pieno). Non so dire quanto a lungo resisterà il gruppo, ma ho capito che questo tipo di domande ha vita breve sul trail: si pensa all’acqua, al cibo, e a come razionare le risorse per affrontare i chilometri che ci aspettano. Il resto è tutto in più.
Riserve
Quaranta chilometri al Paradise Valley Cafe e quindi all’ingresso a Idyllwild e alla San Jacinto Wilderness Area. Però il numero non dice affatto quali saranno le fatiche che dovremo fare. Prima fra tutte, la solita e la più critica: dove possiamo rifornirci d’acqua? Il deserto non fa sconti e ti costringe a pensare solo a quella. Oggi ho rischiato di fare gli ultimi quattro chilometri e mezzo con un solo litro e una giornata ancora molto calda. Mi sono fermato a prendere un po’ d’acqua a un piccolo rigagnolo – mi sono pentito dopo di non aver scattata una foto – ed è stata una bella iniezione di energia mentale (le gambe erano già a pezzi).
Se c’è una cosa che questa giornata mi ha insegnata è la capacità di saper razionare le proprie risorse: materiali (acqua e cibo), fisiche, e mentali.