Ancora neve

Oggi passo di Muir, l’ultimo di quelli considerati impegnativi. Perché? Per via della quota (sopra i tremila e seicento metri) e quindi per la neve. Sapevamo che ci sarebbe stata, non sapevamo però quanta. Non è servita un’ora di cammino stamattina per doversi inventare dove andasse il sentiero sotto la neve. Abbiamo scarpinato su per le rocce attorno a un fiume, cercando la via più breve per salire al Lago Helen. Era preoccupante quando la neve passava direttamente sopra un fiume: non sapevi quando fosse zuppa e se avesse retto. Ci siamo fidati diverse volte e ci è andata bene (anche perché abbiamo seguito tracce altrui, per quanto possibile).

Io mi sono reso conto che al mattino ho bisogno di qualcosa di più sostanzioso come colazione; la mia razione di avena arricchita con frutta secca e altra roba non basta. Infatti, dopo neanche un’ora di salita, ho dovuto mangiarmi metà della barretta proteica con cui di solito riesco ad arrivare fino a mezzogiorno. È sempre il solito problema: il cibo come energia. Ci basterà? Stiamo mangiando abbastanza bene?

Arrivati al passo, troviamo un rifugio di fortuna – un bivacco diremmo in Italia – che ci ricorda subito una cosa nostra: i celebri trulli pugliesi. Ridiamo in due perché l’idea è venuta a entrambi, ma è inequivocabile la somiglianza. Entrando nel bivacco, leggiamo su una targa di bronzo che il rifugio è davvero “ispirato alla tradizione italiana del trullo” (traduzione letterale dalla targa).

La vera sfida sia mentale che fisica della giornata è iniziata dopo il passo. Neve, neve a non finire. Ormai in fase terminale, mezza liquefatta in superficie, faticosa e bagnata. Discesa e poi salita; e poi ancora discesa, poi un giro attorno a un lago e dopo un altro ancora. Non so dire se abbia davvero apprezzato camminare in quelle zone; immagino che ad agosto, quando forse si sarà sciolta tutta quella neve, io purtroppo ho fatta troppa fatica per godermelo. In totale, avremo camminato quasi sedici chilometri su neve, tra salita e discesa. Quando il trail ha cominciato a scendere un po’ più rapidamente, anche la neve si è ridotta a piccole aree poco esposte, è un altro panorama di laghi e torrenti ci ha regalato delle belle occasioni fotografiche: era la Evolution Valley, la valle che dà il nome all’omonimo fiume, uno dei due più critici da guadare. Noi però non dovremo farlo perché domani mattina faremo una deviazione obbligata per evitare un ponte danneggiato dalle piene del 2023. L’​Evolution creek​ si getta nel San Joaquin, e il ponte su questo enorme torrente è stato demolito per evitare che la gente lo adoperasse lo stesso. Senza ponte non è umanamente possibile guadare il San Joaquin: ecco il perché della deviazione, di cui racconterò meglio domani.

Pensando che arriveremo venerdì sera al Vermillion Valley Resort, ho realizzato che non ricordo l’ultima volta in cui è trascorsa un’intera settimana senza aver accesso a internet. Nulla, niente di niente. News, musica, podcast, o qualsiasi altra risorsa più o meno utile. Sembra di essere isolati? Forse un po’, ma le giornate sono ugualmente piene. E poi ho una caterva di puntate di podcast o audiolibri scaricati tempo fa: c’è solo l’imbarazzo della scelta per riempire il tempo, ma anche oggi ho ascoltate solo un paio di cose: una vecchia puntata di “Ci vuole una scienza” sulle zanzare – molto in tema visto che in questa Evolution Valley è pieno – e un altro paio di “Stories”, giusto per rimanere aggiornato su qualcosa (che sarà ormai vecchio).

Sto davvero imparando parecchie cose: non solo a razionare il cibo come non ero certo abituato a fare, ma che non ci rendiamo neanche conto di quante cose possiamo fare meno. E non significa che allora dobbiamo eliminare tutto il superfluo, ma che dobbiamo sempre fare attenzione a quanto (e perché) di questo superfluo lasciamo entrare nella nostra vita e prendere un pezzetto di spazio.

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Intermezzo

Nessun passo oggi, quello di Muir sarebbe stato troppo lontano. Sto scrivendo da un campo a pochi chilometri dal Lago Helen e dal passo, che faremo domani mattina. È stata una giornata lunga e intensa: partiti tardi perché abbiamo atteso il sole che ci scongelasse tenda e sacco a pelo – la temperatura stanotte è scesa sotto zero – e siamo riusciti a camminare per quasi ventisette chilometri, il più vicino possibile al passo. Il nostro piano di arrivare al VVR per giovedì è saltato, ma entro venerdì sera sicuramente. Dobbiamo arrivarci perché stiamo severamente razionando il cibo. Forse ne abbiamo portato poco? Eppure era tutto ciò che ci stava nel bear canister. O forse camminiamo troppo lenti? Può anche essere, ma lungo la Sierra i sentieri sono un terno al lotto ogni giorno: non sai quanto sono mantenuti o se ci saranno alberi caduti che renderanno il percorso molto più lento e faticoso. Poi ci sono le salite e le discese, ripide e ben segnate, oppure su grossi massi da inventare. E poi torrenti ovunque che scorrono anche lungo i sentieri e che ti obbligano a saltare di qua e di là se non vuoi bagnarti o infangarti le scarpe. Non pensavo che l’avrei mai scritto, ma rimpiango un po’ la scorrevolezza del trail nel deserto. Certo, c’era sabbia ovunque che ti ritrovavi in scarpe, calze, e altri indumenti, ma si poteva quasi correre.

Anche stanotte la temperatura dovrebbe abbassarsi fin verso lo zero o poco sotto. Speriamo che ci sia un po’ meno umidità di ieri, ma vista la posizione non credo. Mi sa che ci toccherà gestire il ghiaccio anche domani. Ma perché la tenda si riempie di acqua di condensa che poi ghiaccia? È una domanda a cui vorrei rispondere con un po’ di dettagli, provando a spiegare due concetti di fisica (anzi, termodinamica). Lo farò in inglese così che qualcun altro, leggendo, potrà imparare qualcosa.

A proposito di imparare qualcosa: durante l’ultimo stop Bishop, abbiamo incontrato una ragazza con cui avevamo condiviso una parte di deserto. Lena, francese, che pensavo che non avrei rivista perché era troppo avanti a noi. Lei stava camminando con altre tre persone, tra cui un’altra ragazza (venticinquenne) tedesca. Esuberante, simpatica, qualcuno potrebbe dire un po’ invadente. Non appena ha saputo che ho studiato fisica, mi ha detto che avrebbe voluto camminare con me per farmi un po’ di domande. A me piace sempre molto quando incontro qualcuno che vuole dialogare di scienza e soprattutto farmi qualche domanda: è un modo perfetto per mettere alla prova ciò che so o dico di sapere. Anzi, è il modo migliore, forse l’unico. Abbiamo infatti parlato di parecchie cose di fisica: dal perché si fanno simulazioni, alle leggi di natura, fino a qualche piccolo accenno di fisica moderna (il principio di Heisenberg). È stato soddisfacente poter chiacchierare con lei, anche se non sono convinto di essermi riuscito a spiegare sempre. Spero ci saranno altre occasioni.

Tornando alla tenda, alla condensa, e al ghiaccio mattutino. Perché? C’entra una temperatura particolare detta punto di rugiada (o dew point in inglese). E per capire cos’è bisogna illustrare in breve cosa è e a che cosa serve un diagramma di fase.

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Ottocento miglia

Dopo la mezza giornata di rientro di ieri, oggi è stata una bella intensa. Il programma era di concatenare i passi di Glenn e Pinchot, ma non abbiamo fatto i conti con l’importante dislivello in discesa dopo Glenn (quasi 1’200 metri). Arrivati a sei miglia dal passo, abbiamo deciso di trovare un posto dopo altri duecento metri di salita, così da toglierceli domani mattina. E domani ci riproviamo: poco più di 24 chilometri e due passi: Pinchot e Mather, quest’ultimo considerato tra i più tosti nella parte della discesa perché molto ripida, soprattutto quando c’è neve. Non sembra esserne rimasta molta, ma non c’è che andare a vedere com’è e valutare il da farsi.

Non ho fatto foto, ma abbiamo superato le ottocento miglia di PCT; tra poco meno di una settimana saremo di nuovo in una città, perciò sarà d’obbligo festeggiare in qualche maniera. Stasera a cena, guardando la mappa, ci rendevamo conto di quanta California ci manchi ancora. È sconcertante, in parte: continuiamo a camminare, ogni giorno, eppure sembra che manchi sempre tanto. Però intanto siamo arrivati a ottocento. Non è neppure un terzo del trail, ma perché continuiamo a ossessionarci da ciò che ci manca? Perché sempre quel numero che in fondo non conta nulla? Potrei tornare a casa domani e avrei comunque imparato un milione di cose, sarebbe comunque stato il viaggio di una vita. Come scriveva una hiker sul sul blog nel 2017, il Canada arriverà; devi avere pazienza, vivere giorno dopo giorno, e non pensarci continuamente. Arriverà, ma c’è molto, molto altro con cui riempire il tempo che ti separa da quel giorno piuttosto che continuare a pensarci ossessivamente.

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Back on trail in tre tappe

Jack, Rachel, e Wolff: le tre persone che ci hanno dato i tre passaggi in auto da Bishop fino al trail, dove l’avevamo lasciato due giorni fa. È stata abbastanza difficile trovare qualcuno che si fermasse e volesse caricarci, nonostante fosse sabato e la strada principale di Bishop fosse molto trafficata.

Dopo una quarantina di minuti che cerchiamo di attirare l’attenzione di qualche autista, dietro di noi da un vecchio pick-up bianco un signore di età avanzata si sporge dal finestrino e ci chiede dove dovessimo andare.

“A Indipendence e poi su per la Onion Valley”, gli rispondiamo.

“Posso portarvi fino a Big Pine, se volete.”

“Certo, grazie!”

Conosciamo così Jack, vedovo ormai in pensione, era a Bishop per vendere una bicicletta. Ci racconta che una pronipote è stata in Italia, e che anche lui avrebbe voluto viaggiare in Europa. Noi gli raccontiamo un po’ del trail finora: il deserto e il caldo, la Sierra e l’acqua ovunque. Arriviamo a Big Pine, dove ci scarica a un distributore di benzina. Lo ringraziamo e gli auguriamo buona fortuna per una prossima visita medica agli occhi, a cui è stato operato diversi mesi prima.

Di nuovo col pollice in alto sporto oltre il marciapiede – io invece mostravo la bandana della PCT class 2024 – aspettiamo la prossima buona occasione. Un distributore di benzina è un ottimo posto: si fermano un sacco di auto, ed è molto probabile che qualcuno si offra di darti un passaggio. E così è stato: una donna scende da un SUV grigio e, mentre fa benzina, ci chiede dove dovessimo andare.

“Io sto andando a Los Angeles, perciò qualunque punto lungo la strada va bene. Salite”. Secondo giro.

Rachel, forse sulla cinquantina, insegna agli insegnati come insegnare meglio. Perlopiù asilo e scuola primaria. Abita a South Lake Tahoe (ci arriveremo anche noi) e sta andando a Los Angeles per una settimana – non abbiamo capito se vacanza o lavoro. Sono otto ore di macchina, il che ci ricorda quanto sia lunga la California. Anche lei vuole sapere da dove veniamo e perché abbiamo scelto proprio questo trekking. E soprattutto: quanto siamo fortunati ad avere dei posti di lavoro che ci hanno permesso di andarcene per cinque mesi, con la garanzia di tornare e trovare il nostro posto ancora lì. “Qui ti danno sei mesi al massimo per una gravidanza. E due settimane di ferie. Ho sbagliato nazione, lo dico spesso.” Ride. Ci offre acqua e persino una parte del suo pranzo (alcuni sandwich fatti in casa), ma noi siamo fin troppo carichi di cibo. Venti minuti e siamo di nuovo davanti alla fermata del bus di Indipendence. “Good luck and stay safe,” ci saluta Rachel.

Ora mancano solo i venti minuti di tornanti su per la Onion Valley. Giriamo nella via laterale che porta su verso il trail, e vediamo una serie di automobili perlopiù sportive parcheggiate sul lato destro. Ci mettiamo in posa da autostop quando arriva un ragazzo con i capelli lunghi un po’ unti, una camicia a quadri aperta a metà e un paio di jeans lisi e macchiati in più punti. Si presenta come Wolff (no, non risolve problemi), e ci ha riconosciuto come hiker. “Vi posso portare fino alla fine della strada, certo.” Ci dice che anche lui è appassionato di trekking e va spesso nella zona di Berkeley, dove abita adesso – è di Brooklyn però, mezzo canadese. È lì per fare un giro in macchina con alcuni amici. Quando arriva l’ultimo del gruppo su una Chevrolet, carichiamo gli zaini e saliamo sulla sua utilitaria che ha un che di sportivo, ma non è l’Audi TT versione sportiva di un altro del gruppo. Appena partiti, capiamo subito che è una specie di competizione a chi arriverà primo alla fine della strada. Per me è come tornare al liceo quando giocavo a “Need For Speed: Carbon”, un gioco di gare clandestine di auto in cui c’erano degli inseguimenti nei canyon. Tornanti e cambio manuale da azzeccare sempre per non perdere terreno (e quindi punti) da quelli davanti.

Nonostante guidi a velocità chiaramente oltre i limiti, Wolff è molto abile a pilotare la sua sedan. È pure un discreto esperto perché ci spiega il tipo di motore e perché la trazione anteriore non è ideale per un V6 su queste strade (io non ci ho capito niente, Fabio qualcosa di più). Ci chiede in quante nazioni siamo stati (lui solo quattro), e ci dice che vuole senz’altro fare un viaggio in Europa, Italia inclusa. Non riusciamo a capire cosa faccia nella vita, ma alcuni della sua famiglia sono (o sono stati) accademici proprio all’università di Berkeley. Due giorni fa ci avevamo messo venti minuti buoni per scendere a Indipendence; oggi forse otto per tornare su. È stato divertente, va detto. Salutiamo Wolff, che ahimè è arrivato ultimo forse per colpa delle nostre chiacchiere e del nostro peso extra (zaini inclusi), e lui quasi ci ignora mentre raggiunge i suoi compagni di gara. Ci dice solo “good luck”. A noi ora ci aspettano quattordici chilometri e mille metri di dislivello per arrivare quanto più vicino possibile al passo di Glenn. E lo zaino è più pesante che mai.

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Pausa a Bishop

Secondo stop durante la traversata della Sierra Nevada. Altri quattro giorni e mezzo sono andati da quando ci siamo rifocillati a Lone Pine – che si poteva evitare se avessimo avuto più cibo partendo da Kennedy Meadows. A Bishop ci prendiamo domani di pausa e sbrighiamo le solite incombenze di città, tra cui di nuovo il cibo e un paio di pacchi da ritirare – il mio nuovo paio di scarpe, dopo che le altre hanno percorso ben 840 chilometri. Penso potrei farne almeno altri duecento, ma la capacità di ammortizzare la camminata su quasi ogni terreno è ormai compromessa. Le piante dei piedi cominciano a risentirne, perciò è arrivato il loro momento.

Come sta il mio corpo, dopo tutti questi chilometri (e non siamo neppure vicini alla metà)? Nel complesso, direi bene, molto meglio di quanto credessi. Pensavo che sarebbe crollato ben prima – in effetti a Big Bear Lake è successo, ma è stata colpa di un virus. Ci sono dei piccoli fastidi qua e là, spesso muscolari che vanno e vengono, e una fastidiosa compressione nervosa da qualche parte nel braccio destro che mi compromette la sensibilità di tre dita quando sto sdraiato in certe posizioni. Non so se sia lo zaino o il mio modo di adoperare le bacchette da trekking, ma so già che non è qualcosa che potrò risolvere finché sarò qui. Non è nulla di compromettente, soltanto un po’ fastidioso, spesso di notte quando mi sveglio dopo aver dormito in quelle posizioni.

La Sierra significa anche isolamento quasi totale (cioè niente internet, mai), perciò sono rimasto indietro con un po’ di chat, con le news (le europee come sono andate?), e ovviamente con il blog. Domani avrò tempo di recuperare tutto? No, non credo, dovrò fare una selezione; dovrò scegliere cosa fare del tempo che avrò a disposizione, e la scelta potrà essere guidata dall’unico parametro importante: che cosa conta di più? Che cosa mi sta più a cuore?

Un grazie a Magic Man, un trail angel che abbiamo incontrato per la terza volta! Era al posto giusto nel momento giusto, e ci ha portati dal sentiero alla cittadina di Indipendence.

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Forester e la High Sierra

Il primo vero passo della Sierra è anche il più alto. Nonostante non sia il più difficile tecnicamente, rimane una salita di quasi tre ore sopra i tremila metri, fino ai quattromila del passo. Stiamo camminando nella Sierra ormai da una settimana, ma ho avuta l’impressione di esserci entrato solo oggi, una volta valicato il passo. Sarà perché abbiamo atteso questo giorno da parecchio.

Il passo di Forester segna anche il confine tra due parchi nazionali: il Sequoia National Park e il Kings Canyon National Park. Ho scattate molte foto sia di stamattina che del pomeriggio, ma posso dire che l’ambiente è diventato più familiare, molto alpino anche se a queste quote le Alpi hanno tutto un altro aspetto. Ma camminando su per i pendii rocciosi, giù per i nevai rimasti, o attraverso i boschi di conifere si ha la sensazione di essere davvero in un luogo in cui la natura ha espresso il suo massimo – forse è anche merito dei pochi interventi umani in questi ambienti, davvero nulla in confronto alle nostre Alpi. Se davvero il mondo fosse stato tutto opera di una creazione, l’essere responsabile deve essersi impegnato particolarmente quando si è dedicato a questi ambienti. Penso sia davvero un luogo unico al mondo, che certamente ne ha moltissimi altri di incredibile bellezza. Non so se abbia reso l’idea di quanto sia magnifica questa parte della Sierra Nevada, chiamata Alta Sierra per via delle sue altitudini. Direi che chiunque sia appassionato di trekking in montagna dovrebbe passare qualche giorno (magari anche un paio di settimane) a camminare qui.

L’avevo già scritto settimane fa che, in Sierra, l’acqua sarebbe passata dall’essere una risorsa scarsa a un ostacolo assai frequente. In Sierra l’acqua abbonda: nevai, torrenti, fiumi, e purtroppo anche radure di acqua stagnante, visto che sono l’ambiente prediletto dove proliferano le zanzare. Se qualche centinaio di miglia fa era un privilegio potersi accampare vicino a un corso d’acqua, qui in Sierra è spesso una maledizione.

Ma pure l’acqua che scorre è spesso un serio problema: non ci sono ponti o passaggi attrezzati per attraversare la maggioranza dei torrenti (ora in piena a inizio estate). Le soluzioni sono due: trovare qualche passaggio naturale (rocce, tronchi d’alberi caduti) oppure cercare il punto meno pericoloso per guadare. Ieri ne abbiamo dovuti affrontare ben tre, oggi solo uno – il Bubbs Creek – che mi ha messo in seria difficoltà. C’era un tronco di notevoli dimensioni che sembrava essere caduto apposta per servire da ponte. Perché non usarlo quindi? Purtroppo era a un metro e mezzo di altezza da un punto del torrente in cui l’acqua faceva un grosso salto e aumentava di velocità: una rapida. Cadere dal tronco sarebbe stato seriamente pericoloso; non direi fatale, ma senz’altro ci si sarebbe fatti seriamente male. Fabio si è preso il rischio e con un ottimo equilibrio è riuscito ad attraversare sul tronco. La mia avversione al rischio ha avuto la meglio, e mi è mancato il coraggio di provare a camminare sul tronco. Così ho percorso il torrente su e giù cercando un punto più facile, ma mi sono dovuto arrendere: più in alto andavo, più il corso d’acqua sembrava diventare violento. Alla fine, attraversarlo nel punto in cui si interrompeva il trail è stato più facile del previsto – e ormai ho raggiunto il livello di maestro zen per quanto riguarda il camminare coi piedi fradici.

Domani abbiamo una giornata abbastanza breve: circa dodici chilometri e un po’ di dislivello in discesa per raggiungere il passo di Kearsarge, percorrere la Onion Valley, e trovare un passaggio a Bishop (e potrebbe non essere facile).

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Quindi, Whitney?

Direi che è stata la salita più impegnativa finora e una delle più impegnative che ho fatte. Non tanto per il sentiero – all’inizio un po’ da inventare tra neve e acquitrini – ma per la fatica crescente dovuta alla quota. Non sono un nepalese abituato a vivere a cinquemila metri, perciò salire sopra i quattromila in sole tre ore e quaranta è stata una bella fatica. Come ho detto nei video, fatica ripagata da panorami incredibili.

Il resto della giornata, dopo pranzo, l’ho passato a riposarmi come non faccio neppure quando mi godo uno zero in città: un podcast, un po’ di musica, sdraiato in tenda alla perfetta temperatura del sole pomeridiano, in mezzo a un bosco di conifere della Sierra. Si può chiedere di più? Proprio mentre ero sdraiato a fare letteralmente niente, non sentivo neanche il bisogno – anche perché non sarebbe possibile – di aprire una app connessa a internet per fare qualcosa, per perdere tempo o magari leggere qualcosa di costruttivo (due news, per esempio). È stato un bel momento di pace interiore, direi di mindfulness: “sto bene, proprio ora, proprio qui”.

Due parole sul podcast che sto ascoltando in questi giorni: “Mi dica tutto” è una serie originale di Storytel che prova a mettere in scena delle sedute di psicoterapia. Ci sono dei pazienti, una psicoterapeuta, e le loro sedute settimanali. E poi ci sono alcune scene extra che cercano di dare un po’ più di contesto, facendo interagire alcuni pazienti in scene di vita quotidiana. Non è sempre riuscito perché a volte suona un po’ finto o stucchevole, però è bella da seguire e i problemi che emergono sono molto reali e concreti.

I prossimi tre giorni ci porteranno a Kearsarge Pass e poi a Bishop, ma c’è parecchia roba in mezzo. Domani sarà l’avvicinamento a Forester, inclusi tre guadi a cui fare attenzione. Dopodomani il valico più alto del PCT, e giovedì la discesa. Non saranno giornate troppo lunghe in termini di chilometri, ma credo saranno comunque intense. Credo proprio che alla fine della Sierra ne usciremo esausti; ma quanto più ricchi (e allenati) saremo?

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Pronti per Whitney? E il resto?

È una domanda come quelle di cui scrivevo ieri, e la risposta non la so. Frequento la montagna da anni, potrei dire da sempre, e di escursioni ne ho fatte tante, ma ognuna è a sé. Domani mattina, 10 giugno, partiamo alle quattro per salire il Monte Whitney; c’era anche l’opzione di partire stanotte per vedere l’alba da lassù, ma alla fine l’unico scopo della partenza presto è prendere la neve in buono stato, prima che l’esposizione al sole la rammollisca troppo. Dovremo fare poco più di 1200 metri di dislivello, a cui si sommerà l’effetto della quota. Un pochino dovremmo essere già abituati a queste quote, ma dovremo salire fino a quattromila e quattrocento metri. Non credo sarà troppo complicata, però sarà lunga e intensa, e bisognerà stare più attenti del solito per il tipo di escursione. Io credo di essere pronto, il mio corpo pure (se l’altitudine non mi giocherà brutti scherzi).

Oggi era il weekend delle elezioni europee; mi piacerebbe sapere come è andata, chi ha votato qualche persona che conosco, quali sono i primi risultati. Potrò sapere tutto ciò soltanto mercoledì o giovedì, quando torneremo “nella civiltà”, a Bishop. Forse mercoledì se domani riusciamo a camminare qualche altro miglio tornati sul PCT. Perché la parte tosta di questi giorni non è certo finita. Up next ci sono tre torrenti da guadare – due dei quali un po’ complicati perché hanno una grossa portata e sono in piena con tutta l’acqua del disgelo – e il primo di una serie di passi che ci prenderanno le prossime settimane. Questo passo è anche il punto più alto del trail, il passo di Forester (4011 m).

Con un po’ di su e giù, oggi siamo rimasti intorno ai tremila metri, e certe salite ce l’hanno fatta pagare assai. Però i boschi della Sequoia National Forest, in cui siamo entrati proprio oggi e che percorreremo sino a Forester, sono sempre terapeutici: nonostante tu sia stanco, il camminarci attraverso ti regala una senso di pace e tranquillità che non sai bene da dove arrivino: fanno parte dei “regali” della Sierra – di nuovo, regali che costano parecchia fatica.

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Fine del Sierra pre-show

I pre-show sono delle specie di trailer o cortometraggi che vengono mostrati prima di certe proiezioni. Ecco: i due giorni e mezzo passati sono stati soltanto un primo assaggio della Sierra; da oggi, si comincia sul serio. In uno (forse due) giorni arriveremo in zona del Monte Whitney, a cui dedicheremo un giorno intero (o quasi). Sarà una salita dal sapore molto alpinistico, perché nonostante ci sia pochissima neve è pur sempre una cima sopra i quattromila. C’è ancora da decidere se salirla la notte per arrivare su all’alba, oppure partire come si farebbe normalmente per una salita di questo tipo, verso le tre-quattro del mattino, così da sfruttare il più possibile la compattezza della neve rimasta.

Stasera, a 3425 metri sulle sponde del Chicken Spring Lake, sembra davvero di essere in un’altra dimensione. C’è quel tipico silenzio che si riesce a trovare solo in montagna – ahimè al mare lo sciabordio è ineliminabile – e una calma che è raggiungibile solo quando si decide di isolarsi momentaneamente dal mondo. So bene che non è davvero possibile, ma qui sembra che lo sia. Sarà pure una impressione effimera, ma vale la pena godersela.

Oggi, dopo aver dedicato la mattina ad altre commissioni, mentre aspettavamo il nostro “taxi” che ci avrebbe riportato dove avevamo lasciato il sentiero ieri, stavo perdendo tempo su internet. A fare cosa? Nulla, in realtà. Aprivo un sito, aggiornavo una app, facevo finta che mi interessasse leggere le news sulle elezioni europee o cosa sta accadendo a Gaza, ma era soltanto un rimbalzare disordinato tra molteplici distrazioni, proprio quelle distrazioni che fanno ormai parte di quella vita che ho messo in pausa alla partenza ad aprile. E pensavo: voglio ritornare a camminare per liberarmi di queste dispersioni incontrollate della mia attenzione. Ma fuggire è solo un’apparente soluzione; possibile che la mia vita sia davvero così tanto dominata da cose che non scelgo intenzionalmente? Possibile che l’unica scelta che funziona davvero sia eliminare internet? Di nuovo, non ci credo perché sarebbe una sconfitta totale. Vorrei tanto poter dire che troverò una soluzione camminando, ma non è detto. Certo è che sto allenando non soltanto i muscoli, ma anche la testa. Qui tutto costa, quasi tutto pesa, e ciò che pesa dobbiamo infilarlo nello zaino; perciò è un costante allenamento all’essenzialità. Mi serve questa cosa? È utile a me o a qualcun altro che mi comporti in un certo modo? Sono solo domande, ma farsi quelle giuste significa creare lo spazio necessario per una possibile risposta.

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Welcome to Sierra

Ormai al chilometro 1190 non ci sono più dubbi: siamo ufficialmente entrati in Sierra Nevada. Le quote non scherzano: oggi il campo sopra i tremila metri, e l’altitudine media dei prossimi giorni non credo scenderà troppe volte sotto i 2’500. Pensavo che non ho mai dormito in tenda a queste altitudini, anche perché in Europa è abbastanza raro trovare boschi o foreste così vaste a queste quote. L’ultima volta che sono salito fino a questa altitudine era – credo – per andare alla Cabane de Tracuit, poco sotto i 3400 metri. È un’esperienza completamente nuova, e non potrei esserne più contento perché sto letteralmente vivendo giorno dopo giorno in un tipo di ambiente che amo e frequento da sempre. Nonostante non sia stata una giornata facile – anche se con un po’ meno dislivello di ieri – mi sono goduto molti dei segmenti nelle antiche foreste della Sierra. Si nota proprio come gli alberi siano qui da secoli, alcuni forse anche da millenni. È un ambiente molto silenzioso, se ci si fa caso, soprattutto quando si cammina da soli senza nessuno troppo vicino, davanti o dietro. Sarà forse la quota che sta imponendo al mio corpo un certo acclimatamento, ma sono arrivato a fine giornata piuttosto stanco; nessun particolare dolore, ma proprio una spossatezza che di solito associo a giornate ben più lunghe.

Ho pensato ancora all’idea che “il trail è un’esperienza terapeutica”. Ma in che senso? Non certo nel senso che ti risolve i problemi. Anzi, i problemi che lasci indietro, di cui decidi di dimenticarti per un po’, saranno là ad aspettarti al rientro. Un problema non è un problema se si auto-risolve. Per di più, durante il trail avrai una miriade di altri problemi, molto spesso pratici e che richiedono (a volte) decisioni pronte ma non avventate. Quindi sembrerebbe tutt’altro che terapeutico: un percorso che genera altri problemi e ti impedisce praticamente di preoccuparti di quelli che hai lasciato a casa, magari proprio quelli che ti hanno spinto a intraprendere questo viaggio. Quindi è tutto inutile? Direi proprio di no. Ciò che impari qui sul trail è spesso una ​soft skill​: non certo montare la tenda controvento, ma ciò che impari per superare certe difficoltà soprattutto mentali sono nuovi comportamenti che puoi trasferire altrove nella tua vita. Coraggio, fiducia in se stessi, miglior comprensione dei rischi associati alle proprie capacità, per esempio. Quindi il trail non risolverà certo i tuoi problemi di vita, ma è assai probabile che ti darà l’occasione di affinare o sviluppare da zero degli strumenti che saranno molto preziosi da qui in avanti.

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Feels like Sierra

Sono bastate davvero poche miglia per cambiare scenario, come se fossimo a teatro e qualcuno avesse tirato delle funi dalle quinte per cambiare scenografia. Il deserto è ormai alle spalle, e le foto di oggi già mostrano un ambiente più simile a San Jacinto che alle miglia percorse prima di Kennedy Meadows. Boschi, molta acqua, e profili di montagne che occupano l’orizzonte. In più, l’altitudine comincia a salire: oggi il campo l’abbiamo piazzato quasi tremila metri. Montagna vera, insomma. Mio papà mi ha scritto questo stamattina:

Allora oggi si parte, finalmente per le Grandi Montagne. È consigliato: respirare a pieni polmoni, riempire gli occhi delle cime più alte, sognare. Baci

Ci si rende conto che chi sta a casa non può percepire quali sono le reali difficoltà pratiche che devo affrontare. Però è utile avere qualcuno che ti ricorda spesso che devo anzitutto godermi questa avventura, altrimenti perché lo sto facendo? A parte qualche fastidio alla pianta dei piedi – dovuto in parte allo zaino pesante, in parte alle scarpe che sono quasi esaurite (hanno poco meno di cinquecento miglia) – la giornata me la sono goduta proprio apprezzando l’ambiente nuovo che stavamo attraversando. Mi sono sentito più a casa, tra montagne che un po’ conosco anche se in Sierra Nevada non ci sono mai stato.

Siamo stati relativamente veloci a camminare perché siamo arrivati al pit-stop per pranzo prima di mezzogiorno e al campo prima delle cinque. C’era già un bel gruppo di persone che avevamo già viste diverse volte, e abbiamo cenato tutti insieme. Alcuni parlavano del prossimo compleanno di uno del gruppo, un bel esempio di socialità ​on the trail​.

In un momento di solitudine – sembra impossibile riuscire a camminare da soli quando c’è così tanta gente sul trail, ma capita più spesso di quanto si pensi – mi chiedevo perché adottare una soluzione scomoda come un bear canister per proteggere gli animali dal nostro cibo. Perché non installare dei contenitori appositi? La risposta è semplice e ha due livelli: uno pratico e l’altro etico/ambientale.

  1. Sarebbe impossibile manutenere la quantità di contenitori necessari a coprire tutti i possibili campground. Il PCT è stato disegnato con l’idea di impattare il meno possibile sull’ambiente.
  2. Siamo noi hiker ad aver deciso di camminare in queste aree frequentate da animali che possono essere disturbati dalla nostra presenza. Sono loro i legittimi abitanti di questi parchi nazionali e wilderness area. E siamo dunque noi esseri umani a dovere preoccuparci di non infastidire chi qui ci vive. Portarsi un cilindro da un chilo in cui mettere tutto il cibo e la roba che odora qualcosa non è certo piacevole, ma è di gran lunga la soluzione più veloce al problema. La fatica che si fa è una specie di prezzo da pagare per poter godere di questa natura senza rovinarla più di quanto già facciamo.

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Pre-Sierra

Secondo giorno di quasi zero a Kennedy Meadows per gli ultimi preparativi per il capitolo Sierra Nevada. Dico “quasi zero” (un nero1 quindi) perché abbiamo camminato circa quattro chilometri per raggiungere un campground sul trail, così da riuscire a partire prima domani mattina. Avremo una bella giornata da 1’400 metri di dislivello positivo e quasi 28 chilometri. Il programma è riuscire ad arrivare venerdì nel primo pomeriggio a Lone Pine, piccolo villaggio che è un resupply point abbastanza gettonato dagli hiker, prima o dopo il Monte Whitney.

Tra l’altro, quando ero pronto per tornare al trailhead, la navetta dal Grumpy’s Bear Retreat era piena, ma poco prima avevo notato nel parcheggio la macchina di Sandy, la trail angel di Ridgecrest che ha ospitato me e Fabio. Aveva accompagnati alcuni hiker ed era lì per ritirare dei pacchi. Così le ho detto che stavo per tornare sul trail, e lei si è offerta di accompagnarmi. Di nuovo la più totale disponibilità, che lascia sempre basiti. Mentre percorrevamo la strada verso il General Store, Sandy mi raccontava di una ragazza che l’aveva supplicata di portarla qualche miglio lungo una strada sterrata – quelle che qui chiamano dirt road – così che potesse percorrere a piedi le ultime miglia per arrivare a Kennedy Meadows. Sandy le ha detto di non potere perché avrebbe dovuto rientrare a Ridgecrest per ospitare altri hiker e non ci stava coi tempi. La ragazza si è così messa a piangere, e infatti l’ho vista molto spaesata quando era nel parcheggio di Grumpy Bear. Ho intuito che la ragazza ci tenesse a fare una bella figura arrivando a piedi e non in macchina. Comprensibile, vista l’accoglienza che hai a Kennedy Meadows, ma perché mai fregartene di quale impressione avranno gli altri? Perché ti senti in colpa ad essere arrivata lì in auto e non a piedi? Se non l’hai fatto perché volevi fregare il trail, allora non c’è niente di cui vergognarsi. Ma devi ricordarti che non puoi fregarlo, non puoi trovare scorciatoie e credere di aver vinto la sfida. È come illudersi di aver trovato una violazione al Secondo Principio della termodinamica: non è possibile, hai sicuramente dimenticato di considerare qualcosa.

Una nota finale: ho scoperto un libro intitolato “The trail” di un autore che ora non ricordo ma che mi sarà facile ritrovare online. È un romanzo ispirato ai ricordi dell’autore di una hike del John Muir Trail, che si sovrappone interamente col PCT dal Mt. Whitney in poi. Ne ho trovata solo una versione audio su Books, alla modica cifra di 31 franchi. Non credo la acquisterò, ma lo aggiungo alla interminabile wishlist.

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  1. Crasi del termini “near” e “zero”. ↩︎

Settecento miglia

Kennedy Meadows non è per nulla come nel film1, ora posso dirlo. Anzi, nulla dopo più di mille e cento chilometri dal confine col Messico è come poteva sembrare da libri, film, o racconti altrui. Però già essere qui è qualcosa di enorme. Ricordo ancora quando scrivevo sul blog che tra i miei sogni di appassionato di montagna e hiking c’era percorrere un pezzo del PCT. Ora sono qui e ne ho percorso ben più di un pezzo; ne ho percorsa a piedi una distanza che non avevo mai percorsa o immaginato di poter percorrere. Quando oggi siamo passati al Triple Crown Outfitter – uno shop ambulante con un’ampia selezione di ciò che tutti gli hiker cercano, cibo e attrezzatura – la persona responsabile (“Yogi” è stato il suo trail name) ci ha detto una cosa che meriterebbe di essere stampata da qualche parte per essere ricordata. Traduco: “il tuo corpo ti fa capire se è in grado di camminare per questa lunga distanza. Una volta che hai questa risposta, il resto è soltanto testa.”

Rispetto a ieri, oggi non abbiamo quasi camminato: meno di 15 chilometri e circa tre ore per arrivare alla strada asfaltata che, dopo quasi un miglio sotto al solito sole bollente, porta al Kennedy Meadows General Store, dove chiunque ti stringe la mano e si congratula per il traguardo. Perché le parole giuste non sono “siamo solo qui”, ma “siamo qui. Siamo già qui.”

Il resto della giornata è stato di riposo, alcune faccende tipo il bucato (non commento sulla qualità del risultato), e un po’ di socialità. Il Grumpy’s Bear Retreat è un bar/pub/locale nel mezzo del nulla che offre diversi servizi gratuiti in cambio di promesse implicite di laute consumazioni (cibo e bevande). Dopo più di un’ora di sgangherato karaoke, c’era ancora gente sulla veranda del locale gozzovigliare urlando. Noi siamo un po’ più lontani, verso il bosco, tutti nella propria tenda. Domani ci saranno altre cose di cui occuparsi, ma sarà ancora una giornata di riposo. Non mi importa nulla se gli altri due italiani partiti un mese dopo di noi hanno già fatto più di duecento miglia; io, dopo settecento, mi merito un po’ di relax.

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  1. “Wild” di Jean-Marc Vallée, con Reese Witherspoon, il film responsabile dell’enorme popolarità del trail dal 2014 in poi. ↩︎

Certe volte non ci credo

Non ci credo che sono qua, nel sud della California a camminare praticamente ogni giorno e con in testa di percorrere un’intera nazione a piedi. È qualcosa che ha ormai ingranato come routine, ma non è così semplice soppiantare le normali abitudini o aspettative.

Oggi alla fine ho aggiunto uno zero alla lista perché siamo tornati sul trail a metà pomeriggio, dopo aver sbrigato un paio di commissioni e trascorse un paio d’ore a casa di Sandy, una trail angel di Ridgecrest che avevamo contattata per un passaggio di ritorno sul trail. Potremmo essere più veloci? Senza dubbio. Potremmo spendere di meno? Senza dubbio.

Ho riflettuto su quanto una realtà come quella di queste persone che mettono a disposizione tempo e la propria casa a persone sconosciute sia totalmente lontana dalla mentalità italiana (e in parte anche europea). Mentre camminavamo verso l’ufficio postale, la temperatura della giornata già bella alta (c’erano 37 gradi), una donna attira la nostra attenzione a un semaforo mentre attraversiamo la strada: “do you need water?” ci dice mostrandoci una bottiglia? Ha intuito fossimo hiker e si è subito resa disponibile. Ecco cos’è: una predisposizione alla disponibilità, al provare a venire incontro ai bisogni altrui, a cominciare da quelli più basilari, anche se si tratta di una persona mai vista prima. È molto più facile avere fiducia della gente se si adotta questo modo aperto e senza pregiudizi al primo approccio.

A tutte le persone che mi scrivono ogni tanto ho già detto (più volte) quanto mi faccia piacere riuscire a rimanere parte delle vite di alcune persone. A volte qui mi sento non solo distante geograficamente, ma anche completamente impegnato da non avere più tempo – eccola qui la scusa principe – per un sacco di cose, incluse certe relazioni. Ho paura di tornare a casa fra qualche mese e accorgermi che certe cose sono cambiate o si sono deteriorate. Ho paura di essere diventato più stupido per non aver studiato o letto abbastanza libri. Ho sempre la solita, insensata paura di essere rimasto indietro rispetto a qualcosa che non ho deciso io né so bene che cosa sia.

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Un livello dopo l’altro

Anzitutto, un’idea di racconto che mi è venuta oggi: ho immaginato un dispositivo che permetta di impersonare un altro (o altra) hiker sul trail. Tipo la modalità multi-personaggio di GTA V. Ci sono alcuni vincoli, ovviamente: non puoi impersonare chiunque, soltanto qualcuno con cui hai interagito. Non importa dove sia, puoi scambiare le personalità – il corpo rimane quello del destinatario – e solo per un tempo limitato. Non so bene dove potrebbe andare a parare, ma le idee è sempre meglio scriverle.

Oggi è stata un’altra tappa discretamente lunga: 36 km per arrivare a sole 21 miglia da Walker Pass. Ciò significa che domani avremo altri 32 chilometri, circa mille metri di dislivello positivo totale e altrettanti in discesa. Nulla di particolare, se non fosse che vorremmo riuscire a prendere un autobus per raggiungere la città, e l’ultimo bus passa poco prima delle quattro del pomeriggio. Partendo alle sei del mattino, avremmo otto ore e mezzo per fare questi chilometri. Non sono molto convinto, ma vedremo domattina. È di nuovo una notte ventosa, speriamo non peggiori come è solito fare perché vorrei tanto riuscire a dormire bene stanotte.

Sebbene non la vediamo ancora, la Sierra Nevada è ormai dietro l’angolo: da Walker Pass sono meno di cinquanta miglia. Così oggi pensavo: abbiamo finito (quasi) questo primo livello, proprio come se si trattasse di un videogioco. Chiunque abbia mai giocato su pc o console ha interiorizzato il concetto di livelli. E qualsiasi titolo videoludico è costruito intorno all’idea di una progressione di difficoltà crescente, spesso segnata da alcuni punti chiave come delle sfide speciali contro i “boss” di fine livello. Ecco, siamo quasi alla resa dei conti con il deserto: vento, sabbia, pochissima ombra (quella poca che c’era l’abbiamo sempre benedetta durante una pausa pranzo), lunghi tratti aridi senza una goccia d’acqua. Non avremo un boss finale da sconfiggere, ma tutte queste difficoltà messe insieme ci avranno insegnato molto. Sarà come aver finalmente sconfitto il Deserto.

Anche se… Questa mentalità non è costruttiva né utile quando bisogna vivere giorno dopo giorno. La motivazione è semplice: il trail è certamente una sfida, ma non lo è contro il trail stesso. Non si può sconfiggerlo, sarà sempre di più di te. Non c’è una sfida in cui esso non ti possa schiacciare immediatamente. Detta le regole, e noi ci adeguiamo di conseguenza, accettando – non senza imprecare o gioire – tutto ciò che ci troviamo davanti.

Ci vuole un fisico bestiale

Per resistere agli urti della vita

Ci vuole un fisico bestiale

Perché siam sempre a un incrocio

Sinistra, destra oppure dritto

Il fatto è che è sempre un rischio

Ci vuole molto allenamento, sai

Per stare dritti controvento

— “Ci vuole un fisico bestiale”, Luca Carboni

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Cosa sono davvero le ​“trail legs​”?

Altra giornata dilaniante per le mie gambe: un’altra (l’ennesima) contrattura muscolare mi ha complicato la giornata da mezzogiorno in poi. In più, è stato un pezzo di trail davvero pesante: molta salita di cui la maggioranza aveva pendenze estreme (ossia linee dritte “alla bergamasca”). Abbiamo pure fatto una deviazione di circa 3.5 chilometri per l’acqua, deviazione che col senno di poi avremmo evitato volentieri. Si unisca a tutto ciò un’altra giornata molto calda di fine maggio (promemoria: siamo ancora nel deserto) e si otterrà una giornata abbastanza devastante per tutto il corpo. In totale abbiamo camminato per quaranta chilometri. Quaranta.

Avendo camminato per buona parte della giornata da solo, ho riflettuto su parecchie cose. Sono tornato sul discorso delle amicizie e dei gesti di condivisione spontanea che io credo debbano fare parte di una relazione sana. Ho poi cercato di capire cosa siano quelle che qui vengono chiamate trail legs, cioè “gambe da trail”. La mia gamba dolorante mi ha comunque permesso di camminare per quaranta chilometri, come è stato possibile? Ecco, proprio per questo fenomeno di irrobustimento e aumento della resistenza di tutti i muscoli più coinvolti nel camminare. Le trail legs sono questa cosa qua, secondo me: una “super resistenza” che permette di macinare più strada. I muscoli non hanno abbastanza nutrimento per mettere su massa, ma perdono il grasso in eccesso e diventano più efficienti, si stancano dopo molto più tempo. Una cosa che non credevo assolutamente di riuscire a ottenere, e invece dopo seicento miglia me ne sono accorto. Ciò non significa che si possa rinunciare al riposo o a fare stretching, anzi. Però ora abbiamo una specie di superpotere – se e quando la contrattura se ne sarà andata – che sarà uno dei mezzi per arrivare in Canada, sperando di evitare infortuni seri. O almeno è quello che vorrei 🤞

Una nota estremamente positiva della giornata è stato incontrare due signore di mezza età con una jeep a un’intersezione del sentiero con una strada carrozzabile. Un altro episodio di trail magic che ribalta sempre l’umore in positivo, nonostante tu sia già del tutto disfatto. Due snack, un po’ di frutta, e una lattina di Coca-Cola sono state la panacea che desideravamo. Ed è arrivata: ​the trail provides​, quando smetti di combatterlo. Grazie a tutti coloro che si impegnano in questi piccoli gesti gratuiti che per noi che camminiamo valgono tantissimo! 🙏

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L’inizio della fine del deserto

Dopo due giorni di riposo – anche se non ho fatto nessun esercizio di stretching, preferendo cazzeggiare col blog e altre cose – si riparte per le ultime 135 miglia di deserto. E stavolta lo dico sul serio: in circa otto giorni dovremmo chiudere la prima sezione del PCT, cioè la California del sud, dominata dal quel tipo (o forse ​tipi​) di deserto che ormai conosco abbastanza bene. Il checkpoint di Kennedy Meadows segna l’inizio del secondo capitolo, il più breve, ma che si merita una sezione a sé: la Sierra Nevada. Da un punto di vista geografico – e forse anche geologico – da oggi stiamo camminando in Sierra Nevada, o almeno le sue pendici più basse. Alcune montagne sono chiamate con altri nomi: Scotie e Piute mountains. Le percorreremo da qui a Walker Pass, il vero punto d’inizio della Sierra. Sarà comunque una vegetazione simile per un po’ di miglia anche dopo Walker Pass; persino la zona di Kennedy Meadows sembra ancora deserto. Per i boschi alpini della Sierra bisognerà camminare un po’ e soprattutto alzarsi di quota.

Ho ancora alcuni dubbi sulla prossima sezione:

  • Dove fare resupply?
  • Mi servirà qualcosa per stare più caldo la notte?
  • La piccozza? Dovrò comprarne una?
  • Che scarpe prendere? Le mie sembrano quasi arrivate – sono sicuramente durate meno di quanto mi aspettassi – perché mi sembra che la capacità di ammortizzare la camminata sia un po’ (tanto) peggiorata. E il problema è l’assenza di negozi in cui provare qualche modello alternativo prima di acquistarlo.

È stata una giornata lunga perché siamo partiti tardi, un po’ troppo comodi anche oggi, e le miglia da fare sono state più di 21. Ho ascoltata un po’ la playlist che Andre e Cri mi hanno rimpolpato, ma non molto altro. Ho pensato parecchio a molte cose, in particolare:

  1. Ancora alla questione delle amicizie che a volte si deteriorano senza che tu te ne accorga. Pensavo che io proverei a riparare tutte quelle che mi interessano davvero, ma non è detto che tutti la pensano così. Ad alcuni va bene “buttarle via” quando non funzionano più. È la normalità, forse, ed è molto triste.
  2. Mi manca programmare e pasticciare con le mie cose, i miei corsi online che non concludo mai, i miei problemini, i miei puzzle, i miei side projects. Mi è dispiaciuto non poter essere andato a Pycon Italia quest’anno e incontrare un po’ di persone, di amici anche. Ma tornerà tutto, proprio tutto quello che ho messo in pausa; questi mesi sono l’occasione per distaccarsi e rigenerare le idee.

Domani negli Stati Uniti è festa, è il Memorial Day (festività civile in onore dei caduti di guerra). Mi chiedevo – e anche i miei genitori ieri me lo dicevano – dove sarò il 4 luglio, giorno della festa più importante della nazione perché è la ricorrenza dell’indipendenza dagli inglesi. In qualunque città che si rispetti sarà una grande festa, ma non so davvero se sarò in prossimità di una città. La Sierra si avvicina e mantiene tutto il suo riserbo; ci toccherà approcciarla con umiltà e rispetto in maniera da instaurare un rapporto amichevole. Credo che solo così ci lascerà passare regalandoci tutto ciò che custodisce.

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Facciamo due conti

Mi sembra un momento opportuno. Ma che tipo di conti? Sì, dovrei fare un bilancio di quanto sto spendendo, ma adesso sto parlando di un ipotetico planning per il resto del trail. E lo so che ci sono troppe variabili, troppo è ancora in mano al caso. Però può comunque essere utile fare un paio di discorsi di massima.

Ma prima di tutto: perché fare questo discorso? Perché pianificare quando ormai ho capito che è quasi inutile? Non è del tutto vera questa affermazione; è necessario pianificare alcune cose – l’acqua, per esempio, determina il ritmo di quasi tutte le giornate. Però ho un tempo limitato per questo viaggio e non posso non tenerne conto.

Primo punto: siamo a circa dieci giorni da Kennedy Meadows, l’inizio canonico della sezione della Sierra Nevada. Questa sezione, se consideriamo solo la parte “alpina”, è lunga poco più di 300 miglia. Un’approssimazione conservativa è allocare un mese di tempo per percorrerla, anche se è fattibile in tre settimane. Diciamo tra i 25 e i 30 giorni, ma stiamo larghi: vogliamo ottenere un piano di massima.

Secondo punto: quando inizieremo la Sierra? Diciamo intorno al 5 giugno, contando 1-2 giorni di stop una volta archiviata la sezione del deserto (cioè il sud della California). Dovremmo quindi uscire dalle montagne entro il 5 luglio, il che significa che rimarranno 57 giorni fino a fine agosto1

La domanda più difficile adesso: è realistico pensare di poter percorrere quel che resta della California (la parte nord, circa 600 miglia) e gli stati di Oregon e Washington – che sono circa mille miglia insieme – in poco meno di due mesi? La risposta è, ovviamente, dipende, ma fatte certe assunzioni, direi che potrebbe essere un “sì”. Quali assunzioni?

  • Aumentare la distanza quotidiana fino ad arrivare a 25-28 miglia, cioè 40-45 km giornalieri.
  • Ridurre il numero di riposi totali. Se vogliamo fare una stima potremmo assegnare 10 giorni di riposo totali per OR e WA, 5 a testa. Il budget dei giorni salirebbe a 67, ma potrebbe rimanere fattibile.

Seguirò questo piano? Non lo so, ma averlo fatto non significa che io debba sottostarvi a qualsiasi costo: serve solo a prendere consapevolezza di ciò che ho fatto, come, e dove posso migliorare.

Concludo con un highlight della giornata: abbiamo trascorso la fine del pomeriggio e la sera a un ristorante/sala giochi/bowling. Eravamo soli? Certo che no! L’iniziativa è partita da un hiker americano (Chris) che ha prenotato un tavolo e le piste da bowling; poi la voce si è sparsa così rapidamente di gruppo in gruppo che verso le sette ci saranno stati almeno una trentina di hiker. Come se fossimo un unico gruppo di amici di lunga data che si è ritrovato per il compleanno di uno di noi. Anche questa, secondo me, si può annoverare nella ​trail magic​ perché è stato molto rilassante, rinvigorente, e pure divertente.

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  1. Io in realtà avrò fino al 9 settembre incluso. ↩︎

La zona di comfort

Gli ultimi due giorni mi hanno sconquassato: non solo per la distanza percorsa, ma anche per le prove da superare contro gli elementi (vento, acqua, sole). Ieri i chilometri lungo l’acquedotto sono stati monotoni e pesanti, e dopo la pausa pranzo abbiamo dovuto camminare altri sedici chilometri. Dopo tutto ciò, chiunque penserebbe di aver diritto a un po’ di riposo, ed è stato questo il feeling una volta arrivati al campo: qualche albero, un ruscello vicino e la comodità dell’acqua subito disponibile, e soprattutto finalmente fuori dall’area più sferzata dal vento – questa zona del deserto del Mojave è infatti tappezzata di turbine eoliche più che da pannelli solari.

Purtroppo, era tutto solo un’illusione da fiaba Disney. Di punti comodi (cioè in piano o quasi) praticamente non ce n’erano, e il terreno era duro e sassoso. La stanchezza della giornata mi convince a dormire “alla cowboy”, ossia senza tenda. Ma non appena finisco di preparare la mia postazione, il vento ci ricorda che non è andato da nessuna parte e ricomincia a soffiare a folate abbastanza forti. Cerco così un posto alternativo dove piantare la tenda e lo trovo una ventina di metri risalendo il fiume: perfettamente piatto e su terreno di ghiaia grigia fine, in cui i picchietti entrano come coltelli nel burro e, una volta dentro, tengono alla grande. Soddisfatto, mi do una sciacquata approssimativa, soprattutto ai piedi che raccolgono sempre tutta la terra che riesce a entrare nelle scarpe.

Verso le otto e mezzo siamo già pronti per andare a letto, complice la giornata pesante. Sembra andare tutto (troppo) bene quando mi corico e mi metto a scrivere le due righe giornaliere. Di nuovo, è un’effimera illusione destinata a durare qualche ora soltanto. Infatti, verso le dieci e mezzo, il vento torna alla carica, e stavolta ci fa capire che sta facendo sul serio. Lo si sente mugghiare quando si infila dall’alto e scende nello stretto canyon in cui si trova il campo. Non sono folate, ma vere e proprie bordate che arrivano ogni dieci-venti secondi; come se qualcuno da lassù riuscisse a impacchettare l’aria e lanciarla giù nella valle. Ecco che il terreno così bello compatto e liscio diventa il luogo peggiore dove essersi accampati: ogni folata solleva una manciata di granelli di sabbia che vola rasente al suolo, proprio all’altezza perfetta per infilarsi sotto la tenda. Provo così ad aggiustare l’assetto della tenda e abbassarla di più in modo da dare meno superficie al vento e ridurre lo spazio in cui si può infilare la sabbia. La tenuta migliora e la tenda sbatte molto di meno, ma la sabbia continua a entrare troppo facilmente. Piego una bandana a mo’ di mascherina per respirare un po’ meno sabbia, e l’unica cosa che posso fare è chiudermi nel sacco a pelo e provare a dormire. Poco prima delle cinque, quando è ormai ora di alzarsi per riuscire a partire presto, stimo di aver dormito forse tre ore in tutto. I ventisette chilometri che ci attendono so già che saranno più faticosi del previsto.

Tutta questa riflessione rientra perfettamente in quella che ho già fatta qualche settimana fa sulla zona di comfort. Siamo davvero sicuri di sapere quale sia la nostra? In uno dei video iniziali che avevo pubblicato su Instagram avevo detto, prendendo in prestito le parole di un amico e hiker ben più esperto di me, che la zona di comfort si può espandere attraverso la somministrazione di piccole dosi di disagio1. Ma come molte cose nella vita neanche questa piccola trasformazione avviene in un colpo solo; così come nell’elaborare un lutto attraversiamo diverse fasi, anche qui il primo step riguarda l’accettazione: siamo lì sdraiati nella nostra tenda mentre fuori il vento non ha intenzione di cessare; a ogni folata una manciata di sabbia si deposita su tutto quello che la tenda contiene, compresi noi stessi. Cosa possiamo fare? Possiamo imprecare, urlare, piangere, uscire dalla tenda e cercare la compagnia di qualcuno, ma nulla di tutto ciò cambierà la situazione. L’unica cosa che può darci un (misero) sollievo mentale è accettare la condizione presente, una specie di esperimento di mindfulness in una situazione che è tutt’altro che rilassante. Questa è decisamente una cosa che il trail sta cercando di insegnarmi: qualunque cambiamento vogliamo apportare alla nostra vita dobbiamo cominciare con l’accettare le condizioni attuali. Il problema è che siamo disabituati a ciò, siamo impazienti in tutto e assuefatti dalla possibilità di cambiare qualunque cosa non ci piace della nostra vita, e pretendiamo di poterlo fare subito.

Se c’è una cosa che mi fa spaventare

Del mondo occidentale

È questo imperativo di rimuovere il dolore

— Brunori Sas, “Secondo me”

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  1. Potremmo chiamarla una specie di mitridatismo↩︎

Risorse

Direi proprio che la parola del giorno è risorse. La giornata è stata eterna sul trail: sfiorati i quaranta chilometri, di cui almeno venticinque di noia mortale lungo il Los Angeles Aqueduct. È famigerato questo tratto del trail proprio per questi chilometri sotto il sole cocente, senza un briciolo di ombra o acqua per diverse miglia. L’usanza vuole che si faccia di notte, ma Fabio e io abbiamo preferito partire presto piuttosto che rinunciare a un po’ di riposo notturno. Alla fine, a parte la noia di un percorso sempre uguale – e tolti i fastidi per un paio di vesciche che si ripresentano dopo qualche ora di cammino – non è stata così tremenda. È stata certamente impegnativa, ma posso dire di esserci arrivato abbastanza preparato, perlomeno sulla resistenza mentale. Domani il programma è arrivare alla prima intersezione con una strada nel primo pomeriggio ed essere così in città entro sera.

Nella noia di oggi, era inevitabile non pensare a quanto questo deserto del Mojave sia un’enorme risorsa: acqua, sole, e vento, per dire le più importanti. Quindi energia – anche se l’acqua serve per altri scopi. Da fisico, è inevitabile non riflettere sull’onnipresenza del concetto di energia. Non ne abbiamo una definizione precisa, ma sappiamo benissimo come maneggiarla, ed è evidentemente un bene essenziale per qualunque società. Infine, c’è l’energia sotto forma di cibo che mi carico tutti i giorni sulle spalle, un carico più o meno pesante (spesso troppo!). Ho già approfondito sul blog perché sarebbe più corretto parlare di “energia libera”, è un discorso affascinante e un po’ complicato.

Avrei potuto ascoltare un sacco di roba, mentre mi sono limitato a due cose soltanto: la puntata di ieri di “Morning” e un messaggio audio di Andre e Cristina. Erano dieci minuti di audio e mi hanno tenuto compagnia per un po’, perciò grazie a entrambi! 🙏 Tra le tante cose, Andre mi ha ricordato che non si può rincorrere una persona che non vuole essere trovata (o non può). Non pensare perciò che una mancata risposta voglia dire che io sto facendo qualcosa di sbagliato, è l’altra persona a non voler comunicare. Spesso è difficile accettarlo e dispiace disinvestire in una relazione, ma di certo non possiamo dedicare un tempo esagerato a qualcuno che non lo vuole – e i suoi motivi possono essere i più diversi.

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