Posts tagged “hiking”
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All’incirca trentadue chilometri. ↩︎
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Intendo filtrare e riempire le due bottiglie. Non mi fermo certo per bere, ormai è un gesto automatico che riesco a fare senza dover fare soste e togliere lo zaino. ↩︎
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Questa idea è centrale nel libro di Anna Lembke, “L’era della dopamina”. Lettura molto consigliata. ↩︎
- Una puntata di “TG Luna” sulle notizie del giorno, che fa sempre ridere anche quando le news sono tutt’altro che divertenti.
- Un paio di episodi meno recenti di “Stories” in cui Cecilia Sala raccontava del disastroso dibattito televisivo tra Trump e Biden. Un’altra in cui illustrava il profilo di un personaggio, scrittore americano, che vorrebbe diventare il vicepresidente di Trump, se dovesse vincere a novembre, dopo aver detto e scritto qualsiasi cosa contro di lui prima di buttarsi in politica. Esempio della coerenza delle persone di cui si circonda il criminale bugiardo che potrebbe tornare a coprire la carica politica più importante al mondo.
- Ho riascoltata una vecchia puntata di “Comodino” in cui Dario Breassanini diceva la sua sul libro di Labatut, che ho scaricato dalla mia libreria personale e vorrei provare a leggere.
- Ho quasi concluso la terza stagione di “Mi dica tutto”, la serie di Storytel che mette in scena delle sedute di psicoterapia. Ora anche la psicologa, Diana, comincia a sbottonarsi un po’ di più, e noi riusciamo a conoscerla meglio, fuori dello studio e le sue conversazioni con i pazienti. Tra alti e bassi, rimane un podcast interessante che consiglierei.
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Non ho per ora nulla da aggiungere, eccetto un suggerimento di titolo da parte di Lorenzo: “Lezioni di fisica per un viaggiatore”. È un bel titolo, va detto. Grazie del suggerimento! ↩︎
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Sempre sperando che un incendio che ha costretto a chiudere il trail a circa cento miglia dal confine non peggiori drasticamente nei prossimi giorni, evento assai probabile vista l’estensione dell’incendio ad oggi: circa 8’000 acri, ossia 32’000 chilometri quadrati. ↩︎
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Questa è una mezza bugia perché ci sono occasioni in cui ci si riesce a riposare anche di più di quando siamo in città. ↩︎
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Che poi ho aggiornato. Però non sono riuscito a scrivere quel post extra di approfondimento sul perché della condensa in tenda, anche d’estate. Lo farò, ma non so proprio promettere quando. ↩︎
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Impresa che si chiama Calendar Year Triple Crown. Se una Triple Crown è qualcosa per poche decine di persone, immaginate compierla in un solo anno. ↩︎
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L’Italia ha una superficie di 301’340 chilometri quadrati. ↩︎
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Uno sicuramente. Il secondo giorno sarà da dedicare ai soliti preparativi, quindi non proprio riposo completo. ↩︎
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L’uno del titolo si riferisce alla foto: la segnaletica non è precisa, e secondo la mappa l’ho scattata al miglio 1001 (virgola qualcosa). ↩︎
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Avevo sovrastimato il tempo necessario alla Sierra. Siamo stati più veloci. In compenso, siamo stati circa dieci giorni più lenti nel sud della California. ↩︎
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Ci saranno montagne serie anche in Washington, ma chi ci pensa adesso? Ci arriveremo? Forse. Quando? Non lo so. La Sierra Nevada è senza dubbio la più famosa. ↩︎
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Un problema (o domanda) di Fermi è un quesito che mette alla prova le abilità a stimare rapidamente una risposta numerica. L’importante è il ragionamento, non la precisione numerica. Quando insegnava a Chicago, Fermi era noto per tormentare i suoi studenti con questo tipo di domande. Fermi era convinto che uno studente di un dottorato in fisica dovesse essere in grado di stimare una risposta quantitativa a qualunque domanda. Tra le domande più frequenti: “quanti accordatori di pianoforte ci sono a Chicago?” ↩︎
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Il Vermillion Valley Resort ↩︎
Astinenza
Il corpo è spesso in grado di fare molto di più di ciò che la mente crede sia possibile. O vuole sia possibile.
Altra maratona oggi, letteralmente: quarantadue chilometri e un po’ più di mille metri di dislivello. Va detto che il sentiero è stato molto scorrevole per buona parte della giornata, fino a circa trenta chilometri. E quando ormai la motivazione era ai minimi – “mi mancano ancora più di dieci chilometri 😩” – ecco che sulla strada che interseca il sentiero intravedi un piccolo gazebo, una macchina parcheggiata, e un tavolo imbandito: bibite, frutta, una torta al cioccolato, biscotti, e patatine di ogni tipo. Trail magic! 😃 Non sono solo occasioni in cui rifocillare il corpo, ma anche l’animo: la gratuità di queste persone che liberamente offrono un sollievo del genere lascia sempre esterrefatti.
Ho chiacchierato un po’ con le due donne che avevano spesi non so quanti dollari per portare a venti miglia1 dalla città più vicina tutta quella roba. Mi dicono i loro trail name, raccontano qualche giro (hanno fatto entrambe il John Muir Trail e alcuni tratti del PCT), e una di loro mi dice che è stata in Italia diverse volte: non solo le mete turistiche più ovvie, ma anche un bel giro in Umbria, da Assisi a Spoleto. Niente montagna però: sono le prime che incontro che non nominano le Dolomiti.
Stavo ormai ripartendo, quando vedo un’altra hiker che si avvicina dopo aver attraversata la strada. Mi chiede: “that’s trail magic?”. “Yes”, le rispondo, e sul suo volto si apre un sorriso così genuino che fa sorridere di riflesso anche me.
La maratona di oggi l’ho camminata praticamente sempre da solo. Ho ascoltate parecchie cose (ho concluso ben due libri), ma ho anche pensato a un altro benefit del trail: l’astinenza da internet, oltre che da molte altre cose. Penso di averne già scritto, e guarda caso l’argomento è tornato fuori più tardi in mattinata quando sono riuscito a recuperare due messaggi vocali di amici in Italia. Uno mi chiedeva se sentissi la mancanza di qualcosa in particolare, e l’altra mi raccontava l’esperienza simile di un’altra amica che ne ha scritto in un diario di viaggio.
Pensavo all’astinenza che il trail ti obbliga a praticare perché avevo deciso che i due messaggi audio li avrei ascoltati qualche chilometro più avanti, non subito. Li avrei conservati per godermeli in un altro momento. Valgono molto per me che cammino tutto il giorno e rimango totalmente distaccato dal mondo là fuori. Così ho deciso che l’attesa avrebbe aumentato il piacere di ascoltarli quando mi sarei fermato per una merenda e un po’ d’acqua2. Apprezzare l’attesa per qualcosa, anche piccola, è sempre più una rarità nel mondo iper veloce e costantemente connesso di oggi. Abbiamo sempre a disposizione, subito, tutto ciò che ci serve. Internet? Quasi ovunque. Energia elettrica? Anche sui mezzi pubblici ormai. Che senso ha aspettare? Anzi, è persino peggio: pretendiamo che tutto sia subito disponibile. Un pacco, un like su qualche social, una risposta a una chat. Se non lo è, qualcosa è andato storto, e tutto diventa immediatamente insopportabile. Forse potremmo riscoprire il valore di qualcosa se solo tornassimo disposti ad aspettarlo un po’ di più e dilazionare il momento in cui ne possiamo godere3.
I quaranta chilometri di oggi ci permetteranno di arrivare a Quincy entro domani sera: ce ne mancheranno ancora trentacinque, ma cosa saranno mai queste distanze? Spavalderie a parte, domani il percorso sarà anche abbastanza noioso perché entreremo a tutti gli effetti in una burn zone, i resti di un incendio che ha devastato una grossa area di questa parte della California. Qui le chiamano anche burn scars, cioè “cicatrici”, che restituisce molto l’idea di un ambiente dilaniato da questi vasti incendi che impiegherà decenni a ritornare in buono stato.
Mi preparo per andare a letto, e il silenzio assoluto di questi boschi quasi del tutto bruciati è rotto soltanto da alberi che cedono e vanno in frantumi, rami e tronchi che crepitano come se stessero ancora bruciando. L’ultimo grosso incendio è stato nel 2021, ma qui gli alberi stanno ancora soffrendo nonostante sembrino morti.
Mi sono messo a scrivere molto tardi alla fine di questa giornata di quasi riposo a Sierra City. Era nei piani di non fermarsi più del tempo necessario per svolgere le ormai abituali commissioni. Peccato che un pacco contenente le cene per i prossimi sei giorni non sia arrivato, quindi ci siamo dovuti arrangiare accorciando la distanza al prossimo pit-stop: faremo tre giorni fino a Quincy (circa sessanta miglia da Sierra City), più o meno a metà strada per Chester, poco dopo il punto di mezzo del trail. Quello sarà anche il momento in cui io saluterò la California e, come ancora non lo so, arriverò in Oregon entro la fine di luglio. Su questo non si discute, e non solo perché agosto sarà l’ultimo mese di aspettativa. Sono davvero stanco di camminare in California, voglio cambiare stato, cambiare scenario, anche se ci saranno milioni di cose considerate imperdibili in queste ultime miglia (alcune centinaia) californiane. Però basta, ci ho passato davvero troppo tempo.
Oltre che una giornata molto calda, è stata relativamente noiosa: ho dovuto sistemare due spedizioni che non sarebbero arrivate in tempo, incluso il nuovo paio di scarpe. Dovrò camminare in quelle attuali fino a Chester, quindi credo più di cento chilometri. Arriverò o forse supererò gli ottocento anche con queste. Tutto sommato stanno reggendo bene, salvo la capacità di ammortizzare certi terreni più sconnessi.
Giornate tipo oggi sono anche le migliori occasioni per socializzare perché si incontrano nuovi e vecchi hiker, oppure si ha l’occasione di parlare con qualcuno che sta più avanti o indietro. Io ho chiacchierato per venti minuti buoni con un uomo sulla sessantina che mi ha chiesto subito se venissi dall’Italia quando mi ha sentito parlare con Fabio. Scopro così che è colui che qui chiamano Uncle Rob, proprietario e gestore dell’unico hotel di Sierra City. È più un ostello dai prezzi molto abbordabili, spartano e molto vecchio, ma più che sufficiente per persone che abitualmente dormono per terra su un materassino gonfiabile (a volte) e sotto un telo di sottile plastica (non sempre).
Rob mi ha raccontato le sue origini italiane: il suo bisnonno era italiano, e si trasferì in America – in Wisconsin prima, poi in Wyoming – all’inizio del ‘900, dieci anni prima della guerra. Comprò un terreno che diventò un ranch indipendente – suo bisnonno coltivava e allevava ciò che gli serviva – ed è ancora oggi della sua famiglia. Nonostante incontri molti hiker, era interessato a sentire la mia esperienza. Si è stupito dei racconti sulle tragiche zanzare della Sierra o dei guadi nei grossi fiumi in piena; mi ha chiesto come avessi gestito il caldo del deserto, e quando gli ho detto di avere un ombrello si è lanciato in una proposta per una nuova tecnologia: perché non rivestire gli ombrelli per il sole di un pannello solare così da caricare batterie e altri aggeggi elettronici? Bella idea, ma non credo siano ancora commerciabili dei panelli flessibili con un’efficienza decente. Mi ha anche raccontato dei suoi prossimi progetti: quando venderà l’attività dell’hotel vorrebbe continuare a contribuire al trail: vorrebbe mettere in piedi una stazione mobile con alcuni servizi tipo lavanderia e appostarsi per dei periodi lungo il trail. Magari aggiungere anche la possibilità di tagliare barba e capelli a chi vuole farlo da sé. Posso dire per esperienza diretta che sono entrambe ottime idee. Oppure gli piacerebbe trasferirsi da suo fratello, in Arizona, che vive un po’ come faceva il suo bisnonno, off-grid diremmo oggi. È stata una bella chiacchierata, che mi ha fatto rischiare di perdere l’ultima ora in cui potevo comprare del cibo all’unico store del paese. Mi dispiace ancora una volta di non aver scattata una foto con Uncle Rob. Gli auguro il meglio per i suoi progetti futuri.
Speriamo che il caldo di domani e domenica sia accettabile, anche se dovrebbe diminuire nei prossimi giorni. Ci aspetta una salita notevole di quasi otto chilometri e mille metri di dislivello per arrivare fino alle pendici delle Sierra Buttes, che non so bene come si pronunci. Proveremo a partire prima del solito orario per sfruttare la frescura mattutina, ma il segreto, se così possiamo chiamarlo dopo quasi duemila chilometri, è sempre e solo uno: bisogna solo mettere un passo dietro l’altro.
Trentaquattro chilometri lungo una parte di sentiero abbastanza noiosa e dannatamente arida, a cui si aggiungono le alte temperature di questi primi giorni di luglio: c’è un’ondata di calore che durerà almeno fino a sabato, mentre domenica dovrebbe mollare un po’.
Se il sentiero è noioso – forse perché annoiato sono io, come scrivevo due giorni fa – non significa che la giornata lo sia altrettanto. Ho pensato di nuovo al progetto del libro1 e ho ascoltato parecchia roba, fra cui:
Quando diamo al cervello molti (spesso troppi) input, è normale che fatichi a produrre pensieri originali; si limita a processare ciò che gli diamo in pasto. Ho ancora quella riflessione sul senso di una thru-hike di cui vorrei scrivere, ma oggi ho anche fatto due piani molto provvisori sulla fine di questo viaggio: quando vorrei arrivare alla fine del Washington, quanto stare a Vancouver, e come organizzare poi il difficile rientro alla vita normale da circa metà settembre in poi. Ormai ho capito benissimo di come i piani sul PCT siano fragili, ma mi serve avere almeno un paio di coordinate temporali rispetto a cui orientare i piani settimanali di quanto camminare e soprattutto a che punto dovrei essere entro una certa data. Ormai lo so che sarà necessario saltare diverse miglia – probabilmente alcune centinaia – ma non credo che nessuno mi verrà a dire che no, io non ho veramente fatto il PCT perché non sono passato da Mount Shasta o perché non ho camminato nella parte centrale dell’Oregon. Fa ridere solo a pensarci.
Intanto: domani arriviamo a Sierra City abbastanza presto, in tempo per una seconda colazione (o un pranzo in anticipo), per ritirare i pacchi che speriamo arrivino (le mie scarpe non credo proprio), e per fare il solito rifornimento per i prossimi giorni. Ci sarà anche tempo per qualche ora di sano riposo, sperando che il caldo non ci faccia soffrire troppo.
Cos’è che mi manda avanti?
Ho raccontato dell’idea del libro sia a Giulio (non me lo ricordavo) sia a Maríka. Due persone molto diverse, due opinioni altrettanto diverse. Maríka mi ha consigliato un libro che non ho ancora letto ma attorno a cui ho ronzato parecchio: il primo libro di Benjamin Labatut, “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”. Ne hanno parlato anche in una puntata speciale di “Comodino”, che avrei voluto riascoltare ma me ne sono reso conto quando ormai non c’era più segnale per scaricarla. In compenso, ho trovato l’audiolibro in inglese su Audible, ma oggi non avevo troppa voglia di cominciarlo. Comunque, il suggerimento di Maríka era sulla costruzione del libro: un’alternanza tra fiction, aneddoti (anche questi in buona parte inventati), e accadimenti reali sulla storia della fisica del primo ‘900. La parte di dettagli inventati, specie sulle biografie di alcuni scienziati ben noti (tipo Schrödinger o Einstein) è ciò che ha disturbato di più Dario Bressanini, ospite della puntata di “Comodino”. In breve: non puoi mescolare finzione narrativa e saggistica senza dirmi quali sono i confini, le regole del gioco. Perché io lettore credo a ciò che leggo, ma in modi molto diversi se si tratta di pura finzione o di un saggio. Posto che non credo di essere in grado di scrivere bene quanto Labatut, ma l’equilibrio tra le due forme devo cercarlo anch’io. Questo progetto è veramente solo all’inizio, ne parlerò e scriverò ancora molto.
Ho pensato parecchio oggi alla mancanza di motivazione che sento negli ultimi giorni, più o meno dopo la partenza da South Lake Tahoe. Forse è proprio ciò che si racconta in blog e libri dopo aver conclusa la Sierra: il North Cal blues. Non lo so, può essere, o forse è solo la mancanza di un traguardo tanto atteso perché la Sierra fa sbiadire tutto ciò che si trova dopo di lei. Eppure anche questa sezione è ricca di scorci interessanti, vette famose da fotografare, città che vale la pena visitare anche solo brevemente.
Durante una puntata di un podcast di cui ho ascoltata solo una parte, Dino Lanzaretti1 dice una cosa che suona fin troppo ovvia, ma è anche molto vera: ciò che mi manda avanti è l’anticipazione di quell’emozioni che so che arriveranno quando giungerò al traguardo. È l’attesa, la consapevolezza di stare facendo fatica per qualcosa che sicuramente mi ripagherà. E lo so perché l’ho già fatto. Lui paragona – scherzosamente – questa rincorsa a una persona dipendente da qualche sostanza psicoattiva: non importa quanto forte sia stato l’ultimo sballo, è sempre alla ricerca di un’altra dose, e a volte questa ricerca restituisce emozioni più forti che l’assumere la dose tanto agognata.
Io adesso non so dire cosa mi mandi avanti. Posso contare solo sul desiderio di arrivare al confine con l’Oregon2 quanto prima e chiudere con la California. Voglio arrivare a quel punto, vorrei essere là ora. Ma anche pianificando di saltare una grossa parte, non posso accelerare il tempo: devo rimettermi a camminare per tutti i giorni che serviranno, fare quella fatica tutte le volte che servirà, e usare il desiderio di essere là in quel punto come carburante mentale, l’unico che possa davvero funzionare.
Wildfire
Ho pensato parecchio all’idea del libro oggi. In particolare a come potrei inframmezzare alle parti divulgative alcune brevi sezioni che raccontino in prima persona la mia esperienza sul PCT. Anche se non c’entra molto, mi è venuto il mente Primo Levi e il suo “Sistema Periodico”, in cui alterna racconti inventati ad altri che sono sue dirette esperienze di vita. Diverse persone mi hanno detto che potrebbe diventare una buona idea, ma c’è da lavorarci. Oggi ho ripensato anche a chi potrebbe offrirsi come lettore (o più probabilmente lettrice) quando avrò qualcosa di leggibile in mano. Due o tre nomi in testa li ho. Altra questione sarà una potenziale casa editrice, ma sto correndo troppo: il Canada è ancora lontano.
Ieri avevamo camminato i primi sei o sette chilometri di un’area chiamata Desolation Wilderness, mentre oggi ne siamo usciti. Sono circa ventidue miglia e sembra di essere tornati in Sierra (altitudine a parte). Queste giornate molto calde di inizio luglio ci stanno regalando il meteo perfetto per fare un bagno in ogni lago che incontriamo. È proprio come avremmo voluto che fosse la Sierra, che invece ci ha fatte pagare care le sue meraviglie.
Però oggi, proprio come un videogioco, il livello si è alzato ancora un po’ e sul campo è sceso un altro tipo di ostacolo: gli incendi boschivi. Grazie al poco segnale internet che ogni tanto riusciamo a trovare, abbiamo scoperto che vicino a Donner Pass – dove dovremmo arrivare mercoledì – si è innescato un incendio che arriva a poche decine di metri dal trail. Non abbiamo potuto controllare eventuali annunci della PCTA, ma su un gruppo Facebook di trail angel della zona un post sconsiglia vivamente di proseguire oltre Barker Pass, a poco più di sei miglia da dove siamo accampati noi stasera. Che fare quindi? Un incendio non è qualcosa con cui vale la pena scherzare, proprio come non lo erano i torrenti della Sierra Nevada. Così domani faremo una deviazione e scenderemo verso il lago Tahoe, e poi troveremo un modo di raggiungere Donner Pass per altre vie (probabilmente un autostop o con un autobus, se esiste). Salteremo circa quaranta miglia, ma non abbiamo molta scelta. Era previsto che gli incendi (wildfire in inglese) sarebbero comparsi prima o poi e avrebbero dettato legge su quali e quante miglia saltare; solo che pensavamo non avremmo dovuto farci i conti fino in Oregon o un po’ più a nord della California.
Tra gli argomenti che sono venuti fuori durante dei momenti di chiacchiere ci sono stati la scrittura – Fabio mi ha chiesto se tutti i corsi che ho seguiti hanno cambiato il mio modo di scrivere in maniera evidente – e un discorso sul senso di una thru-hike. Sulla scrittura potrei scrivere a lungo: gli ho raccontato le mie esperienze e in che cosa mi ha aiutato di più (oltre ad avere conosciuto un sacco di persone del mestiere). Ne ho fatte di esperienze in quel campo: da trekking letterari a scuole in montagna, da corsi online scadenti a laboratori eccellenti – per esempio, il corso “Fondamenti” della Bottega di Narrazione – incluso il mio breve percorso come aspirante editor, culminato con il laboratorio in cui ho lavorato direttamente con un autore e il suo romanzo. Dopo tutta questa strada, qualcosa dovrò pure avere imparato. Così come, se e quando arriverò in Canada, qualcosa sarà cambiato dentro (e penso anche fuori) di me.
Il discorso sul senso di una thru-hike è un po’ più complesso, e non credo di avere le idee chiarissime neanche io (per ora). Rimando a un’altra puntata perché è indubbiamente un argomento che mi sta a cuore e che vorrei approfondire come si deve, anzitutto per me stesso.
Le foto che contano
Non c’era troppa voglia di ripartire oggi, ma al contempo si percepiva quel richiamo del trail, potrei dire una specie di nostalgia. Ma di cosa esattamente? Di camminare trenta chilometri con uno zaino pesante? Di mangiare pasti disidratati? Di non potersi rilassare1 davvero? Forse è un richiamo a una vita più semplice, ridotta a poco più del minimo indispensabile. Certo, rimane pur sempre una bolla, una parentesi che sappiamo bene non essere il tipo di vita che si può condurre per sempre.
Colazione in ostello con un caffè da Starbucks (per risparmiare), e poi, preparati gli zaini, andiamo a recuperare un pranzo minimale – sandwich più macedonia. Ci aspetta un autostop potenzialmente difficile anche se dobbiamo fare poca strada. Si ferma una prima auto, ma la donna alla guida deve andare dall’altra parte rispetto a Echo Lake, dove siamo diretti noi. Poco dopo, una piccola utilitaria non comune qui negli States si ferma: un giovane alla guida sta andando a Sacramento per lavoro e si offre di portarci fino al lago. Non è esperto di hiking estivo, ma frequenta le montagne della
zona perlopiù d’inverno. Il prossimo autunno andrà con alcuni amici in Svizzera a sciare: ha saputo che ci sono enormi comprensori sciistici in cui puoi passarci giorni senza rifare la stessa pista due volte. Non è più un modo in cui io frequenterò la montagna, ma ognuno è libero; bisognerebbe certo essere un po’ più consapevoli di qual è l’impatto dello sci alpino sull’ambiente montano.
A Echo Lake c’è uno chalet-bar-shop (molto costoso) e un po’ di erba con alcuni tavoli. Ci fermiamo per pranzo e conosciamo Rip, una ragazza dell’Arizona che è appena arrivata da Sonora Pass. È partita il 4 maggio da Campo e non l’avevamo mai incontrata. Si è già liberata del bear canister – che tecnicamente è ancora richiesto per una manciata di miglia – quindi dovrebbe uscire dalla wilderness area in cui è ancora necessario senza dormirci, ma non è fattibile in mezza giornata. Farà a meno sperando che qualche abitante dei boschi non venga a farle visita durante la notte 🐻.
Poco dopo si aggiungono al tavolo una coppia, padre e figlia, assai affamati dopo l’ultimo tratto. Loro aspettano amici con cui passeranno i prossimi due giorni di riposo a South Lake Tahoe. C’è forse un po’ di invidia perché loro hanno ancora diritto ai loro giorni di riposo, ma noi ci siamo goduti i nostri fino a ieri. Cosa vogliamo di più?
La quarta persona che si siede con noi è un’altra hiker che avevamo conosciuta mesi fa, all’inizio, e poi persa di vista. È Stefanie, Moonburn, di New York ma vive a San Francisco; lavora come software engineer in una startup. Anche lei è molto rapida a trangugiare un pacchetto di patatine “family size” con una salsa tipo hummus. Ci dice che è tornata sul trail da poco, dopo essere rientrata a casa per la nascita del terzo nipote. Si è anche presa un po’ di pausa per alcuni fastidi alle ginocchia. In più, ha preparato tutti i prossimi pacchi per il cibo: è senz’altro più facile organizzare questo aspetto del trail se giochi in casa.
Così si parla, si fa conoscenza di altri hiker, si socializza anche quando il trail ha ormai frammentato tutti i gruppi più grandi: è davvero facile camminare per un paio giorni senza incontrare nessuno. Qualcuno racconta un po’ il suo lavoro, oppure un viaggio passato o un progetto futuro. O anche qualche incontro speciale: il padre della ragazza – purtroppo non ricordo il nome di entrambi – ci racconta di quando ha lavorato da Apple, e diverse volte direttamente con Steve Jobs. “Era un po’ uno stronzo, e spesso gli piaceva torchiare le persone”, ci dice. Onestamente, al di là della figura di imprenditore geniale, me lo aspettavo come persone un po’ manchevole sulle social skills.
Siamo arrivati a mezzogiorno, ma non abbiamo rimesso in spalla gli zaini prima delle tre. E non è solo perché stavamo tornando sul trail – che è sempre più difficile che abbandonarlo – ma perché non vuoi perderti occasioni come questa. Le motivazioni che spingono ciascuno di noi sono completamente personali, ma il trail non dovrebbe essere un’esperienza di ascetismo solitario: ecco perché dovremmo scattare più foto con le persone che incontriamo, forse le foto che contano di più.
Novanta giorni
Novanta giorni, cioè tre mesi. Tre mesi lontano dai luoghi che chiamo casa, tre mesi di cammino. Oggi però è stato un giorno di riposo, anche se la testa continua a camminare anche quando il corpo è fermo.
Oggi pomeriggio dovevo ancora preparare il cibo per i prossimi giorni, ma non ne avevo voglia. Mi sentivo in gabbia nella piccola stanza dell’ostello, la calura della giornata non aiutava. E così sono andato a camminare; già, come se fosse una nuova attività. Sono andato fino alla spiaggia pubblica di South Lake Tahoe, ho scoperto che, essendo sabato, entrare costava trenta dollari, così sono tornato indietro. Ma il chilometro e mezzo a piedi mi ha aiutato a capire un paio di cose: se nei boschi della Sierra non mi potevo fermare perché bersagliato dalle zanzare, ogni volta che mi fermo in città mi assale tutto ciò a cui non ho potuto dedicare attenzione lungo il trail. Per esempio: mi sono sentito fuori dal mondo a non sapere nulla di come fosse andato il dibattito televisivo tra Biden e Trump. E poi c’era il blog da aggiornare1, un po’ di contenuti audio da scaricare per averli offline nei prossimi giorni, chiamare a casa per aggiornare i miei, e non so più a quali altre cose volevo riuscire a dedicare del tempo. Io credo che l’unica azione immediata che possiamo fare è smettere di opporre resistenza, lasciare che la pressione si abbassi un po’, e poi pensare che cosa ci importa davvero. Sceglieremo così un paio di quelle cose, e non significa che tutto il resto non conta più nulla; conta un po’ di meno di altro nel preciso momento in cui sto facendo questa scelta. Nient’altro. Arriverà un altro momento in cui sarà il loro turno. Magari faremo una scelta sbagliata, dedicheremo del tempo a ciò che non lo merita, ma va bene così: è anche questo un modo umano (quindi fallibile) di reagire a una situazione che ci chiede più di ciò che possiamo dare.
Più tardi, dopo aver sistemato il cibo e cenato con uno yogurt – non ho fatto molto oggi, e il pranzo delle tre mi ha data energia fino al tardo pomeriggio – seduto sul divano della sala comune, prendo in mano un libro di Heather Anderson, che scopro essere una hiker americana che ha completato tutti e tre i trail a lunga distanza in un anno 2. Ha scritto un paio di memoir, mentre qui all’ostello ha lasciata una copia firmata di “Bonus Miles”, una collezione di post dal suo blog e parti tagliate o editate di altri libri pubblicati. Lo apro a caso, ed ecco la pagina che leggo (la traduzione è mia):
Mio zio è morto all’inizio di questa settimana. È stato trovato per terra nel suo appartamento diversi giorni dopo il fatto perché non si è presentato al lavoro. Apparentemente è morto a causa di un “evento catastrofico” (infarto, ictus, eccetera). Da solo. Quando l’ho saputo, naturalmente ho cominciato a piangere. Perdere un membro della famiglia è sempre difficile. Ma più di questo, quando la morte colpisce da vicino; quando colpisce quelli che condividono i tuoi geni – o quelli che perseguono le tue stesse avventure – ti ricorda della tua stessa mortalità. Ho a stento dormito da quando l’ho saputo. La mia testa continua a riprodurre l’immagine di mio zio che cade a terra, sapendo che stava per morire, e giace lì fino alla fine. Da solo. Per quanto tempo? Alcuni secondi? Alcune ore? So che non c’è nulla che possa fare per cambiare la storia, ma ancora piango per lui e per le circostanze della sua morte. Piango, non solo per lui, ma perché ho realizzato la mia stessa paura di essere sola. Di morire sola. Questo mi ricorda solo quanto sia possibile. Stranamente, per qualcuno che spesso preferisce correre da sola, fare escursioni da sola, vivere da sola, pensare da sola e semplicemente essere sola, ho il terrore della solitudine a lungo termine. Ma non è così per tutti? Non è questo il motivo per cui abbiamo una quantità infinita di siti di incontri, gruppi per single e una serie di relazioni fallite nel nostro passato? Sono a mio agio con l’essere sola. Non ho bisogno di essere costantemente avvolta e intrattenuta da un altro essere umano, ma quando si tratta di accettazione, amore e il “per sempre”, devo ammettere, voglio qualcuno con me. Specialmente quando morirò.
Il 2011 porterà nuove sfide su come rimanere sola. Mi spaventano, ma in qualche modo devo trovare il coraggio di affrontarle. Vorrei essere stata lì per aiutare Ronnie [mia zia] ad affrontare l’inevitabile così non sarebbe stato sola.
E per favore, non lasciate che accada a me.
Ma che senso ha?
Il giorno extra guadagnato a Lake Tahoe l’ho speso facendo le solite commissioni: ufficio postale e spesa, più il canonico giro in un negozio di attrezzatura dove ho deciso che non avrei sostituito i miei bastoncini da trekking. Non ancora, anche se uno è quasi del tutto inutilizzabile, ma mi serve per sostenere la tenda. Li cambierò alla prossima città, tra quattro giorni.
Ho lasciato il campeggio gratuito poco dopo le otto, dopo una colazione un po’ misera con due muffin al cioccolato e un paio di pentolini di succo d’arancia: non è la mia colazione, non quella che desidero di più quando sono in città. Però l’ho già detto: in California costa tutto parecchio, e un caffè americano più una brioche mi sono costati $8,50. Una coppia di francesi che abbiamo poi incontrato di nuovo all’ostello ci ha detto: “nel momento in cui smetti di camminare, tutto comincia a costare. Il cibo, dormire, farsi una doccia, fare il bucato.” Sì e no, secondo me: il cibo stesso che ti porti nello zaino, pagato tanto o poco, è proprio ciò che ti permette di essere lì e camminare. L’acqua da bere e per lavarsi è certamente gratis sul trail, ma è soltanto metà delle risorse primarie di cui hai bisogno.
Tornando verso l’ostello dopo aver comprato il cibo, discutevo con Fabio del perché non condivido né capisco chi sta facendo un trail tipo il PCT solo per finirlo in tre mesi, o volendo assolutamente camminare almeno venticinque miglia al giorno, o qualunque altro traguardo fine a se stesso. Siamo tutti un po’ competitivi, me incluso, perciò la sfida è una potente motivazione. Ma è, appunto, una motivazione, un mezzo per un fine. Come può il fine essere solo fare quaranta chilometri al giorno? O completarne quattromila in tre mesi? Potrei capire se si trattasse di una qualche forma di competizione più o meno ufficiale, ma non credo proprio che sia questo il caso per nessuna delle persone che stanno camminando sul PCT in queste settimane (o mesi). È certamente una risposta soggettiva, non ne esiste una giusta. Per quanto mi riguarda, non può bastarmi una cosa così effimera come una distanza su una cartina – distanza che potrei decidere di esprimere in un’altra unità di misura e forse perderebbe del tutto senso – e se il bilancio tra fatiche (di vario tipo) e godimento dovesse essere troppo negativo, non avrei nessun problema ad abbandonare o a prendermi una lunga pausa. Così come non ho tempo da perdere a leggere libri che trovo noiosi o scritti male, non ho tempo per continuare qualcosa che non mi dà più soddisfazione. Forse sarò esigente e magari il discorso suonerà astratto o inflessibile a qualcuno. Poco importa; di nuovo, questa risposta è valida soltanto per me. Sto anche pensando che, tra non molto, potrebbe essere arrivato il momento di proseguire per conto mio. Non ancora, ma ci sto pensando da diversi giorni ormai.
Finalmente a Lake Tahoe
Prendete un volume d’acqua di circa 150 chilometri cubi. Quale stato americano pensate di poter riempire? Se immaginiamo per un attimo che la California sia un’enorme vasca, la cui superficie è di 424’000 chilometri quadrati1, potremmo riempire questa vasca per circa 35 centimetri. Trentacinque, l’intero stato, il terzo più grande della nazione dopo Alaska e Texas. Prendete una mappa degli Stati Uniti e date un’occhiata a quanto è vasta la California. Ora cercate un piccolo lago più o meno a metà dello stato, un po’ più a nord di San Francisco, proprio al confine col Nevada. Sembra minuscolo, vero?
Il Lago Tahoe è profondo cinquecento metri ed è un enorme bacino d’acqua, il terzo più grande degli Stati Uniti. Il 65% della sua acqua arriva da una sessantina di immissari che raccolgono perlopiù acqua di fusione di nevai; il resto è acqua piovana. Se lo svuotassimo tutto, i fiumi impiegherebbero 700 anni per riportarlo al volume attuale. Tutto questo snocciolare numeri è un po’ noioso, forse, ma nulla più dei numeri nudi e crudi restituisce le reali proporzioni di qualcosa.
Siamo arrivati a South Lake Tahoe con una mezza giornata di anticipo: abbiamo presa l’uscita a Carson Pass anziché continuare per i restanti sedici chilometri fino a Echo Lake. Perché? Non stiamo barando facendo così? Di nuovo: ha senso “barare” solo se esiste un set di regole ben chiaro e accettato universalmente. Un lungo trekking come questo non ne ha di regole se non quelle che decido io, e io stesso posso scegliere di cambiarle a piacimento. Senza sacrificare nulla sono arrivato mezza giornata prima, mi potrò riposare un po’ più a lungo e fare tutto ciò che mi permetterà di staccare un po’ dal trail. Perché tornare sul trail significa riprendere a lavorare. Il corpo ha un paio di fastidi, ma è la testa che è un po’ stanca, esausta della routine serrata. Riprenderemo a camminare domenica, ma adesso un po’ di tregua: è finalmente arrivato il weekend.
Arrivati al campground – che abbiamo scoperto ospitare gli hiker gratuitamente – con grande sorpresa abbiamo incontrato Andrew, un ragazzo inglese che lavora per l’esercito e con cui abbiamo iniziato a Campo ormai quasi tre mesi fa. L’avevamo perso il quarto giorno, a Mount Laguna, e non contavano di rivederlo più. Ecco che il trail ribalta di nuovo le previsioni fatte. Ci ha raccontato di aver ricevuto una specie di promozione (o un’offerta) e dovrà perciò rientrare prima. Ha un problema al tendine d’Achille ma vorrebbe camminare in Washington prima di tornare in Europa, e non gli importa molto di saltare l’Oregon, “tanto saranno ancora zanzare e boschi”. Questa sarà davvero l’ultima volta che ci vedremo, ma è stata una bella sorpresa incontrarsi di nuovo proprio adesso. È stato un po’ come incontrare un vecchio compagno delle scuole elementari con cui non pensavi avresti più incrociato la strada. Il 7 aprile sembra così lontano adesso; tutte le miglia camminate hanno già cancellato buona parte delle memorie dirette (fortuna che c’è il diario e il blog). E io non mi sento più alle scuole elementari. Forse non avrò già ottenuto un dottorato, ma penso potrei essere almeno alle scuole superiori: ho una certa esperienza del mondo, credo di conoscere più cose di quelle che in realtà so, e sono convinto di sapermela cavare più che bene. Ma c’è ancora tanto, ma tanto da imparare.
Incontri e idee
Anche oggi giornata da più di trenta chilometri; un po’ più vicini a South Lake Tahoe. Domani ce ne mancano altri trenta, e poi saremo a meno di dieci chilometri dall’incrocio con una strada sufficientemente trafficata da rendere un autostop abbastanza facile (si spera).
Ho fatto giusto due foto, e non perché non ci fossero soggetti o paesaggi, ma perché ho accumulato subito un po’ di stanchezza mentale. Il corpo va alla grande, in verità; a fine giornata, dopo quei trenta e rotti chilometri, sarebbe in grado di proseguire ancora. L’ha già fatto, può farlo di nuovo. Ma è la testa che deve essere presente, convinta di non stare facendo fatica inutile. E la testa, con tutti i pensieri che gli girano all’interno, è volubile e difficile da convincere. Quante volte è stata in grado di spingere il corpo oltre il limite che poteva raggiungere? Soprattutto all’inizio, quando la forma fisica era ancora tutta da costruire.
L’incontro con Kylee e Maristella
Mentre facevamo una pausa acqua a circa cinque chilometri dal campo designato, sentiamo chiacchierare due donne che stanno camminando nella direzione opposta. Appena mi superano, ci salutiamo e mi chiedono come vada. Una delle due si accorge del mio inglese da straniero e mi chiede “sei italiano?” La prima persona che lo capisce senza fare la domanda più generica “da dove vieni”. È Kylee – non so se si scriva così, ma si pronuncia kai-lee – una donna americana di mezza età in giro con un’amica, Maristella, americana anche lei ma di evidenti origini messicane. Ci dicono che hanno in programma di andare in Italia a breve: a Torino, poi Asti, in Toscana (ci hanno detto dove, ma non ho registrato la città), e per finire in Trentino, per un giro in bici tra le Dolomiti, le montagne in assoluto più frequentate dagli stranieri. Gli raccontiamo di noi, del PCT iniziato quasi tre mesi fa dal confine messicano, e loro cominciano a farci domande: quanto pesa lo zaino – Maristella vuole perfino provare a indossare quello di Fabio – quali sono le nostre sezioni preferite e quelle più dure o che abbiamo odiato, come abbiamo gestito il nostro lavoro per un’assenza così lunga. Anche se pensiamo sia tutto normale perché ci saranno qualche migliaio di persone sul trail adesso, questo lungo viaggio a piedi non lo è: non è affatto una cosa da poco, e non lo dico per vantarmi, ma per ricordarmi che la falsa modestia non ha senso adesso. La risposta alla domanda “volete farlo tutto?” è sempre la stessa: “quello è il piano”. Come faremo, ancora non sappiamo.
Prima di salutarci, l’ennesimo gesto di gentilezza estrema: aprono i loro zainetti da dieci o quindici litri e ci offrono una mela e due barrette. “Non ne abbiamo bisogno”, diciamo, ma è difficile rifiutare del cibo, soprattutto della frutta fresca. E poi mi ricordo il suggerimento che ho ascoltato al Cleef camp la prima notte, il 7 aprile: “Ricordatevi l’unica parola che vi sarà sempre utile come hiker: yes. Sempre.” A maggior ragione se si tratta di offerte spontanee e pure ben accette.
Un’altra idea per un libro
Esistono libri sulla fisica dei supereroi, della vita quotidiana, ma non mi risulta1 esista qualcosa sulla fisica dell’hiking. Cosa intendo? Una possibile struttura del libro – che sarebbe quindi perlopiù un saggio divulgativo – sarebbe quella di approfondire alcuni argomenti di fisica strettamente legati al camminare, specie su lunghi percorsi. Ne ho già menzionati alcuni i cui approfondimenti penso potrebbero interessare a molte persone: argomenti legati al meteo e alla fisica dell’atmosfera (condensa tenda, effetto dei laghi), oppure il concetto di energia legato all’alimentazione (non mi interessa né sarei competente per dare consigli su cosa mangiare o come equilibrare una dieta). O ancora: perché la fatica che facciamo camminando non può dipendere solo dalla differenza di altitudine tra punto di partenza e arrivo? Un’altra digressione interessante (e parecchio impegnativa) si potrebbe fare anche sul tempo: come mai percepiamo che scorre a velocità così diverse? C’è qualcosa di oggettivo o è tutto solo nella nostra testa?
Queste sono solo alcune idee che ho scritte dopo averle pensate; servirà un buon lavoro di preparazione perché la struttura possa avere un senso. E dovrò chiedere aiuto e trovare qualche beta reader che si offra di darmi un parere. Intanto faccio un appello a chiunque stia leggendo questo post: se avete qualche domanda o suggerimento in linea con questa idea, vi prego di scrivermi e farmela sapere2. Ci tengo a raccoglierne quante più possibile per sondare a fondo se il progetto vale la pena.
E invece la sfiga esiste?
Il titolo di questa pagina potrebbe essere l’esatto opposto di ieri: la dose di apparente fortuna si è esaurita nella notte.
Appena alzato stamattina, esco dalla tenda e recupero i vestiti che avevo lasciati fuori ad asciugare dopo il trattamento con l’insetticida. E ho una bruttissima sorpresa: il retro della mia maglietta a maniche lunghe è martoriato da buchi – ce ne saranno almeno venti. Penso subito a un effetto del solvente del prodotto che abbiamo usato, ma il pattern dei buchi non ha senso. Sembrano buchi fatti con strumenti molto piccoli e taglienti, buchi fatti non proprio a caso ma quasi. E chi altro gira la notte se non tutti quei piccoli roditori che di giorno scappano appena sentono i passi di un uomo? Lezione imparata a caro prezzo, quello di una maglia da trekking in lana merino.
La giornata di oggi è stata parecchio più lunga del previsto, ma non è stata sfiancante come altre simili. Abbiamo sfiorato i quaranta chilometri e i mille e quattrocento metri di dislivello, anche grazie al sentiero abbastanza scorrevole. Nonostante diversi su e giù, siamo ormai fuori dalla Sierra più dura, quella delle valli profonde e lunghe da scendere e risalire. C’è anche il fattore allenamento, ovviamente: la resistenza muscolare è aumentata notevolmente dopo l’Alta Sierra, e così la capacità cardiovascolare di sostenere ritmi di camminata elevati. Certo, si arriva a sera stanchi e affamati, ma il corpo è in grado di affrontare questo tipo di sforzo e recuperare abbastanza rapidamente per ripeterlo. Domani, infatti, avremo un altro giorno da poco più di trenta, e idem sarà giovedì, Festa dell’Indipendenza americana. Camminare più veloce e per distanze più lunghe ti fa guadagnare tempo, tempo che si può spendere poi in città per rilassarsi un po’ più a lungo.
Felix Felicis
Nel sesto libro della saga di Harry Potter, Harry sta seguendo lezioni private da Albus Silente sul passato di Tom Riddle, il mago oscuro con cui sono in guerra. Per conoscere un’importante periodo della giovinezza di Riddle, Harry deve convincere un professore di Hogwarts a confidargli un ricordo. Il professore, abile mago, ha escogitato tutti gli stratagemmi che conosce per evitare che qualcuno possa estorcergli quel ricordo, arrivando persino ad alterare la sua stessa memoria. Una serie di eventi permettono a Harry di impossessarsi di una potente pozione, la Felix Felicis il cui effetto è fin troppo semplice: portare fortuna a chi ne fa uso. Harry riesce così nell’impresa proprio grazie alla pozione. O forse no? Forse è solo il suo credere di avere fortuna a portarlo ad agire nel modo migliore possibile1.
Nel libro “The luck factor” Richard Wiseman argomenta un’idea non certo nuova, ma interessante. La fortuna non esiste davvero, è in buona parte una mentalità, un modo di vedere le cose e ciò che ci accade. Wiseman racconta di un esperimento sociale abbastanza famoso: un gruppo di volontari è diviso in due gruppi in base a quanto i partecipanti si ritengono fortunati nella vita (sul lavoro, con le relazioni sentimentali). Viene dato a ciascuno un quotidiano in cui sono nascosti degli indizi per ottenere un premio – forse una somma di denaro o una vacanza di lusso, non ricordo. L’esperimento si conclude come prevedibile: il gruppo dei fortunati riesce a trovare tutti gli indizi, mentre solo alcuni (pochi) del gruppo degli sfortunati viene a capo del problema. Per di più, coloro che si ritenevano fortunati avevano completato il compito in pochissimo tempo; anzi, avevano barato, proprio come previsto dai ricercatori, i quali avevano indicato in fondo nell’ultime pagine del quotidiano la soluzione del puzzle. Conclusione: i fortunati sono riusciti nell’impresa proprio perché si ritengono tali e si comportano di conseguenza, cogliendo indizi che ad altri non saltano agli occhi. Perché sanno di essere fortunati in qualunque cosa fanno. Ciò significa che il caso non conta nelle loro vite? Certo che no, continua a determinare la quasi totalità delle circostanze in cui devono compiere delle scelte, ma è il modo di porsi davanti a quelle scelte che conta molto di più. Questo è ciò che argomenta estensivamente Wiseman nel libro.
Oggi, giornata di mezzo riposo dopo l’arrivo a Kennedy Meadows North, sapevamo di dover fare una deviazione che ci avrebbe potuto portare via buona parte della giornata: dovevamo andare fino a Bridgeport, a circa trentacinque miglia dal trail, per recuperare un paio di pacchi dalle poste e provare a spedire piccozza e ramponi. Non c’era altro mezzo se non l’autostop. L’avevamo già fatto e ci era sempre andata bene, ma al passo di Sonora non passano tante macchine quante a Bishop, per esempio. Quanto avremmo aspettato? Quanti passaggi avremmo dovuto chiedere? Quanto credevamo di essere fortunati oggi? Io, lo ammetto, ero molto scettico, pessimista, se si vuole dir così. Non eravamo neppure dal lato giusto della carreggiata perché non c’era spazio perché una macchina si fermasse, e probabilmente non ci avrebbero neppure visto.
Passano tre auto senza che rallentino, e io mi convinco che dovremo aspettare un po’. Dalla strada (in forte pendenza) arriva poi una jeep grigia, vecchia di parecchi anni, alla guida un signore oltre i sessanta con la moglie. “Dove siete diretti?” ci chiedono. Rispondiamo Bridgeport. “Ah, anche noi, vi portiamo lì.” Possibile essere così fortunati? O la fortuna non esiste davvero? Questo è senza dubbio una casualità favorevole a dir poco. È così facciamo il viaggio (quaranta minuti) con Mike e Marie, una coppia che festeggerà il cinquantesimo anniversario di matrimonio a novembre. Hanno viaggiato ovunque, in Europa – Italia inclusa, dalla Francia fino in Sicilia in macchina – in tutti gli stati dei Balcani (eccetto la Moldova2), in Buthan, in Thailandia e buona parte del sud-est asiatico. La miglior pizza mai mangiata è stata a Roma, non hanno dubbi su questo. “Cosa vi manca di più del vostro paese?” chiede Marie. “Il formaggio”, rispondiamo, lei ride ma capisce il perché. Qui c’è solo quello buono da mettere negli hamburger.
Quando gli diciamo che dobbiamo andare all’ufficio postale, Marie sprona il marito a guidare un po’ più svelto (lui voleva solo chiacchierare) in modo da arrivare prima di mezzogiorno ed evitare di aspettare un’ora. Prima di scendere dalla vecchia jeep, ci danno il loro numero di telefono: “se doveste avere bisogno di qualcosa a South Lake Tahoe, noi abitiamo a quindici minuti.” Basito, di nuovo, da questa disponibilità gratuita e senza limiti, visto che siamo completi sconosciuti tirati su da una strada. Perché? Cosa spinge persone come Mike e Marie a questo tipo di comportamenti? È stato inevitabile chiedersi ancora una volta perché da noi in Italia non succede (o è molto rara una cosa del genere).
Sbrigate le commissioni alle poste, andiamo a un piccolo ristorante sulla strada, l’unica coi semafori di tutta Bridgeport. Mike e Marie ci avevano consigliato il posto per un gelato; noi però prendiamo una pita greca con carne di manzo, guacamole, pomodorini, cipolle, e patatine fritte. Siamo hikers d’altronde, consumare calorie è praticamente il nostro lavoro. Prima di ordinare, cominciamo a sistemare i pacchi, che guarda caso contengono cibo. Una coppia di uomini sul tavolo a fianco ci ha sentito parlare, ha visti gli zaini, e ci chiedono dove siamo andati o siamo diretti.
“Stiamo facendo il PCT”.
“Dal Messico fino al Canada?”
“Quello è il piano”, è ormai la nostra risposta classica. “Ora mangiamo qualcosa, poi torniamo su a Sonora Pass per riprendere il trail.”
“Sarebbe un onore per noi riaccompagnarvi su al passo, se volete”.
Perché? La fortuna quindi esiste? Dan e John, anche loro in età avanzata, vagabondi a piedi e appassionati viaggiatori. Ci dicono di aver fatto la via Transalpina più diverse escursioni in Svizzera e in Sud Tirolo. Il loro sogno sarebbe il Cammino di Santiago, quello portoghese però – io gli consiglio anche il Cammino del Nord, quello che passa da Bilbao. Ci riportano al passo e parliamo di tutto: dalla politica europea (e americana, com’è ovvio che sia) ai nostri progetti futuri di viaggi. Loro ci consigliano alcune idee di viaggio negli Stati Uniti, adesso che abbiamo un visto turistico. “Noleggiate un camper ed esplorate”, ci dicono. Sembra essere qualcosa che gli europei fanno spesso qui. Quando li salutiamo, a me sembra di aver salutato i miei zii che mi hanno accompagnato a Stazione Centrale a Milano.
Tra le molte cose che mi vorrei riportare indietro da questo viaggio – di cui un po’ fatico a ricordare l’inizio – c’è proprio il desiderio di essere meno diffidente di persone sconosciute, ma più aperto e disponibile, offrendo ciò che puoi dare senza aspettarti qualcosa in cambio. Forse così riusciremo a smettere di credere un po’ troppo alla fortuna, che forse non esiste.
Bye bye Sierra
È ufficiale: siamo fuori dalla Sierra Nevada. Al miglio 1018, dopo venticinque giorni e poco più di trecento miglia, ho incrociato la Highway 108, un confine di asfalto per il regno montuoso della California.
Già ieri scrivevo che l’ambiente è cominciato a cambiare dopo il Dorothy Pass; oggi ancor più sembrava di essere tornati nel deserto: rocce di tutt’altro tipo, alberi pressoché inesistenti, il trail che traversava spesso ghiaioni con alcuni residui di neve dovuti alla quota – sopra i tremila, l’unica reminiscenza delle alte cime attraversate nelle scorse tre settimane. Comincia domani una sezione di transizione, prima della California del nord. È probabile che comincerò a ragionare seriamente su quali e quante miglia saltare: di California ne ho vista parecchia ormai e vorrei allocare al meglio il mio budget temporale visto che domani comincia luglio e il mio penultimo mese di aspettativa. Non voglio dover correre come un matto in Oregon e Washington, rischiando di non apprezzare nulla di ciò che potrebbero regalarmi. Domani ci aspetta un detour potenzialmente complicato via autostop fino a Bridgeport, dove c’è l’ufficio postale più vicino. Speriamo di cavarcela entro il primo pomeriggio, così da riuscire a camminare almeno una decina di chilometri verso la prossima (e attesa) meta: South Lake Tahoe, dove finalmente mi prenderò un paio di giorni di riposo1.
Le mille e uno miglia
Un migliaio di miglia1. Mille e seicento chilometri. Il Cammino di Santiago, andata e ritorno a piedi. Penso sia più o meno la distanza tra Milano e Copenaghen. Adesso dobbiamo solo ripetere questa distanza una seconda volta, e poi aggiungerci altre seicento miglia e sarà finita. Lo so, lo so, non ha alcun senso cercare di abbracciare in un unico pensiero la distanza che manca. Ma perché pensare sempre a ciò che abbiamo davanti e non un po’ di più a ciò che abbiamo già portato a casa? Domani arriveremo a Sonora Pass e a Kennedy Meadows North – dove di norma si rispedisce il bear canister; noi dovremo tenercelo per altre cento miglia – e dobbiamo festeggiare. È stupido non farlo, non apprezzare fino in fondo il traguardo raggiunto. Secondo i miei piani di febbraio, siamo addirittura una settimana in anticipo2.
Non è ancora finita: ci mancano i diciassette chilometri di domani, ma arriviamo da un’intera settimana in cui non abbiamo mai camminato meno di trenta. Ci sarà un po’ di salita subito domattina, ma finirà in circa cinque chilometri. Poi alcuni saliscendi e infine quasi quattro chilometri di discesa, fino al passo e all’incrocio con la Highway 108. Voglio lavarmi, lavare i vestiti (tutti! Non commento l’odore della maglietta che uso per camminare), mangiare qualcosa di gustoso, rilassarmi un po’. Non troppo, nel senso che non ho intenzione di fermarmi un giorno a Kennedy Meadows; voglio accumulare il vantaggio temporale e spenderne una parte a South Lake Tahoe. Là sì che mi fermerò davvero. Credo sia più saggio perché sarò in una grande città, quindi tutti i tipi di comfort saranno disponibili. Voglio andare un giorno in una spa e prenotare un massaggio. Voglio premiare per davvero il corpo per tutto quello che è riuscito a fare.
La tappa di oggi è stata molto variegata. Un sacco d’acqua e boschi umidi per i primi quindici chilometri (quindi un incubo di zanzare), fortunatamente senza troppo dislivello. Il primo vero lago è stato il Dorothy Lake: acque cristalline e azzurre come non mai, sempre un richiamo fortissimo per un bagno rilassante – ma ritorno a ciò che scrivevo ieri. Poco sopra il lago si attraversa l’omonimo passo, forse l’ultimo della Sierra prima di quello di Sonora. E qui comincia un netto cambio d’ambiente: poche miglia – e una rigenerante pausa pranzo su delle rocce al sole, quasi totalmente liberi dalle zanzare anche grazie a una gradevole brezza estiva – e si torna a camminare in boschi molto più aridi, il terreno sassoso e sconnesso. Tornano persino alcune piante che non vedevamo dalla zona di Walker Pass, ben prima di entrare in Sierra. Ho avuta l’impressione che fosse una specie di ultimo saluto dell’ambiente montano per eccellenza sul PCT3; come se si fosse rassegnato al fatto che ce ne stiamo andando, che questa sezione l’abbiamo quasi conclusa.
Oggi mi ha fatto compagnia parecchia musica: ho ascoltato le mie playlist praticamente fino al passo, cantando qualche canzone in italiano o quelle in inglese che conoscevo meglio. Pomeriggio invece mi sono dedicato a un libro che avevo già letto: “L’ordine del tempo” di Carlo Rovelli. Il capitolo che ho riletto (non ho cominciato dall’inizio) mi ha ricordato parecchie cose della mia tesi di dottorato, così arrivato al campo mi sono messo a rileggere anche quella (alcune parti). Un modo diverso di relax, per godersi un po’ il tempo libero che ogni tanto si guadagna camminando più velocemente quando il terreno lo permette. Mi sono riletto la tesi anche per ripescare un paio di concetti di cui ho già scritto e che ripeterò quando scriverò il post sul perché della condensa in tenda.
A mo’ di conclusione, lascio una domanda che ieri mi ha fatto Fabio e a cui io ho trovato una possibile risposta di cui non sono troppo convinto: immaginando di poter levitare e spostarsi senza incontrare ostacoli, a che velocità bisognerebbe muoversi per osservare il sole sempre al tramonto? Penso sia un buon esempio di problema di Fermi4, domani proverò a spiegare la mia risposta.
Un posto che non ti puoi godere
Siamo ormai a circa cinquanta chilometri dal passo di Sonora, il che vuol dire la fine convenzionale dell’Alta Sierra. Oggi è stata la terza giornata campale di fila: lo sapevamo, l’avevamo previsto sulla carta, ma poi la realtà è sempre un’altra cosa.
Ci sono stati quattro saliscendi tosti oggi, quattro valichi e altrettante valli, tre delle quali hanno richiesto di guadare dei torrenti. Quello più impestato è stato il primo stamattina: il sentiero scompare, poi incontriamo un fiume con quattro o cinque rami, ovunque tronchi d’albero caduti a complicare la navigazione. E ovviamente, nugoli di zanzare che aspettavano solo noi. Il secondo fiume problematico è stato prima di pranzo; il problema era la profondità dell’acqua in quasi tutti i punti in cui si poteva attraversare facilmente. Fabio ha deciso di farlo senza scarpe1, io preferisco tenerle per avere un po’ più di aderenza sulle pietre bagnate. Non ho problemi a bagnarmi i piedi, ma voglio evitare di cadere mentre cammino in un fiume dalla corrente tutt’altro che tranquilla. E invece così succede: quando poggio entrambi i piedi su una grossa pietra inclinata di circa trenta gradi – metà di essa era sommersa – le scarpe non mi tengono, e io scivolo come all’acqua park: dritto in acqua, seduto in una pozza fortunatamente poco profonda che mi bagna fino alla vita, compreso il fondo dello zaino. La caduta non è stata dolorosa, anzi, soltanto fastidiosa; mi sono detto che in ogni caso avrei dovuto lavare i pantaloni (ma avrei preferito in lavatrice). Così la pausa pranzo diventa obbligata per asciugare vestiario e zaino; come per contrappasso, l’area al di là del fiume è priva dei fastidiosi insetti, ventilata, e con un sacco di ombra grazie a numerosi alberi.
Dopo pranzo la strada è ancora lunga: ci mancano dodici chilometri per concludere la tappa di oggi e non abbiamo molta scelta se vogliamo arrivare a Sonora domenica. Ci aspetta un’altra (l’ultima) salita, poi discesa, un paio di laghi che sembrano cartoline stupende dalle foto sulla mappa, e un ultimo fiume che si preannuncia facile perché molto poco profondo e lento.
La salita si mostra subito senza troppi sconti: dritta, pendente, continui gradoni alti e scomodi da salire con un solo passo. In più, è il 28 giugno e il sole delle due è abbastanza caldo. So già che berrò entrambi i litri d’acqua che ho ricaricato al fiume. Dopo un’ora e mezzo (forse un po’ di più) siamo in cima, a una sella che ci porta nella valle adiacente senza regalarci nessuna vista. Sembra proprio un intaglio nell’enorme bastione di granito che separa le due valli. Le miglia di questo tratto iniziato a Mammoth Lakes continuano a essere molto dure: anche questa discesa è ripida e diretta, giusto qualche tornante per agevolare chi cammina. Ed ecco il problema a cui ormai ci siamo abituati. Boschi, terreno sempre molto umido per i numerosi torrenti che scendono a valle – molti sono ancora neve di fusione – e una quota ormai abbondantemente sotto i tremila metri: è l’ambiente ideale per le onnipresenti zanzare. Sempre loro, sempre tantissime. Quantità che un europeo non credo sia abituato a vedere in questo tipo di ambiente2. Non puoi fermarti neppure per allacciare le scarpe o per scattare una foto: ne hai subito addosso diverse manciate, come se stessero aspettando solo te. Dove si acquattano, mi chiedo? Come fanno a essere così rapide a trovare un essere umano? Scriverò un post in cui sfatare un po’ di fandonie che si continuano a leggere sul PCT: “le zanzare non sono un problema se ti muovi”. Nulla di più falso. Nonostante tutto, mi fermo comunque quando incontro uno dei laghi: voglio scattare una foto, anche solo per averla nel mio diario. Lascio che mi assalga un manipolo di zanzare, resisto scacciandole dal viso a manate, e scatto la foto. E poi penso: non posso neppure godermi questo posto, questo lago, questo ambiente che amo così tanto. Sono costretto a correre via, inzupparmi di repellente e sperare che duri abbastanza (non lo fa mai). Lo so che è soltanto il periodo: siamo a inizio estate, la neve sta finendo di sciogliersi, c’è acqua ovunque, e le larve di zanzare hanno ormai tutte abbandonato i loro ambienti acquosi per fare ciò che fanno tutti gli esseri viventi (mangiare e riprodursi). Probabilmente tra tre-quattro settimane sarà molto meglio, ma noi siamo qui adesso. E io non riesco a non pensare che questo problema sia una specie di tassa da pagare perché altrimenti sarebbe tutto perfetto, un vero paradiso in terra. E il paradiso probabilmente non esiste, specialmente qui su questa terra.
Sono già pronto a rispondere alla domanda cosa avresti fatto diversamente? Salterei la Sierra per tornarci ad agosto, il mese migliore. Anzi, lo consiglio anche3 a chiunque stia sognando di essere qui, su questo trail così famoso: saltate la Sierra a fine maggio o inizio giugno, e tornate quando potrete godervela davvero; tornate quando sarà esentasse – al netto delle fatiche notevoli per la quota e i dislivelli.
Sono stanco
Poco meno di ottanta chilometri ci separano da Sonora Pass, il passo in cui si fa convenzionalmente concludere la Sierra. Passi, cime, laghi, nevai, e tutto il resto. È sempre al primo posto in qualche sondaggio alla domanda “qual è stata la sezione più bella”? Ed è vero, è così e l’ho già scritto (e mostrato attraverso le foto) più volte. Però è dannatamente impegnativa.
Ieri più di quaranta chilometri, oggi trenta e rotti, e domani sarà un’altra giornata da almeno trenta chilometri. Su e giù di diverse centinaia di metri, almeno un paio di volte al giorno, quasi tutti i giorni. Il corpo e la mente lo fanno perché sanno che non c’è molta alternativa; certo, basta andare al proprio ritmo, senza strafare o inseguire nessuno. Però rimangono sempre trenta chilometri con quasi millecinquecento metri dí dislivello positivo. Chi chiamerebbe una cosa del genere vacanza? Un folle o semplicemente una persona che non ha idea di cosa voglia dire lavorare tutti i giorni con la stessa intensità. Ecco perché è fondamentale riuscire a dormire come si deve: dopo il cibo, è così che il corpo fa di tutto per recuperare e essere pronto il giorno dopo.
Però sono stanco, davvero stanco. Penso che la fatica sia troppa e si sia accumulata a tal punto che non riesco a controbilanciarla con la bellezza di ciò che vedo; ci sono troppi fastidi che non accennano a migliorare, primo fra tutti le zanzare, mattina e sera. Ogni giorno, quasi in ogni posto in cui ci fermiamo.
Non vedo l’ora di arrivare prima a Sonora Pass, e poi a Lake Tahoe, dove mi prenderò sicuramente due giorni di stop. E tra le ragioni per cui me li voglio prendere c’è quella più semplice: il mio corpo, io stesso non sono stato costruito per camminare tutti i giorni con questi ritmi, in questi ambienti, dovendo sopportare e pure sopravvivere, portandomi chili di cibo nello zaino. Manca ancora un po’ – almeno un’altra settimana, più qualche giorno – ma alimentare il desiderio di quei riposi mi aiuterà ad andare avanti. Anche domani, il giorno dopo, e quello dopo ancora. Chi mai sceglierebbe di lavorare così tanti giorni consecutivi senza mai riposarsi davvero?
Vorrei scrivere altre due parole sulla sostenibilità ambientale del frequentare ambienti naturali come sto facendo da quasi tre mesi. Oggi pensavo al perché in Italia non potrebbe funzionare un sistema di permessi per campeggiare. Le regole sono talmente confuse che non si capisce cosa si possa o non si possa fare in due regioni diverse, magari persino confinanti. La ragione potrebbe essere semplice: nessuno controllerebbe davvero se le persone hanno il permesso richiesto; qua sì, eccome, specie nelle aree più frequentate come la Yosemite Wilderness Area (dove sono adesso). Per un campeggio in un’area non prestabilita allo scopo – che non significa attrezzata – si rischiano duemila dollari di multa. Ecco perché non funzionerà mai in un paese come l’Italia.
Chissà quali sono le ultime news, cosa è successo nelle ultime settimane, quali sono le conseguenze delle elezioni europee. Non sto più seguendo “Morning” da almeno due settimane, perciò non sono più aggiornato su nulla. Non vedo l’ora di uscire da questa sezione di montagna splendida ma molto, forse troppo isolata. Sono un po’ stanco anche di questo.
Più di una maratona
È raro che mi metta a scrivere dopo le nove e mezzo, ma sono appena entrato in tenda dopo l’abituale routine serale. Anche il telefono mi dice che è ora di andare a dormire. Ma c’è una ragione se ho fatto così tardi oggi.
Partiti intorno alle sette e mezzo, il piano era di fare una tappa molto lunga, più lunga della media che servirebbe fare per arrivare a Sonora Pass domenica. Insomma, una maratona – anzi, un chilometro in più. Abbiamo camminato quasi quarantaquattro chilometri, con circa ottocento metri di dislivello positivo (negativo molto di più, ma non ricordo il numero). Ero dilaniato, qualsiasi muscolo dalla vita in giù era indolenzito. Abbiamo percorso l’intera meadow fino all’incrocio con la Highway 120 – quanto ho desiderato fare l’autostop e andare nella città più vicina, farmi una doccia, mangiare una cena decente senza zanzare che ti ronzano addosso fameliche. Al parcheggio vicino alla strada, dove parecchie persone arrivavano o partivano per un’escursione giornaliera, a me mancavano ancora nove e rotti chilometri.
Mentre camminavo da solo nei boschi tranquilli della piana di Tuolumne, ho pensato un po’ all’idea di “valorizzazione”1 del territorio che abbiamo noi in Italia. Perché qui possono esistere così facilmente queste aree sconfinate di natura quasi allo stato grezzo? E non c’è da stupirsi quando si incontrano così facilmente animali: cervi, marmotte, scoiattoli, per dirne alcuni. Mentre da noi siamo abituati a considerare questi incontri delle rarità perché gli animali tendono ad andarsene o a stare alla larga dalle aree a forte presenza antropica.
Davvero, non so come abbia fatto il mio corpo a portarmi fin qua anche oggi. Quarantatré chilometri e una stanchezza colossale. Non credo ascolterò il podcast serale perché temo dormirei dopo i primi due minuti. Mi merito un po’ di sano riposo, sperando che il corpo riesca a ristorarsi a sufficienza per domani. Perché sì, come ogni giornata infrasettimanale, anche domani si lavora.
I primi trenta in Sierra
Prima giornata in cui abbiamo sfiorato le venti miglia in Sierra. Sonora Pass è ancora lontano, ma ci saranno un paio di giorni in cui si potrà spingere un po’ e fare dei big miles days così da rimanere nel piano di arrivare all’ultimo passo della Sierra per fine settimana.
Stasera ci siamo accampati in un luogo meraviglioso ma non ideale: a pochi metri sopra un grosso lago, il Thousand Island Lake – in cui ho fatto anche un bagno veloce prima che andasse via il sole, coperto da nuvole che minacciavano temporali. Ecco un’altra bella domanda per la serie di Q&A di fisica sul trail: perché campeggiare vicino a un lago non è così bello come sembra? Proverò a rispondere con qualche dettaglio in più, ma intanto dico solo che c’entra la capacità termica dell’acqua. Onestamente non so quando riuscirò a scrivere una risposta esaustiva alla prima domanda (“perché certe volte la tenda si riempie di condensa?”), ma lo farò; dovrò aspettare di arrivare a South Lake Tahoe, quindi tra una decina di giorni, credo. Ahimè non penso avrò modo di essere in una città per il 4 luglio, Festa dell’Indipendenza e una delle più importanti in USA. Mi sarebbe proprio piaciuto vedere e magari partecipare a questa festa.
Ho camminato più di trenta chilometri, ma non ho ascoltato nulla: non ho finito il romanzo di Lee Child, né ripreso qualche podcast. Però ho recuperato ben tre messaggi vocali scaricati prima di tornare offline. È sempre un piacere sentire le voci di qualcuno che conosco che mi racconta qualcosa di particolare o meno, oppure che si sfoga per qualcosa che è successo. Il corpo cammina – e fa un gran lavoro – ma anche la mente ha bisogno di fare qualcosa, anche solo riempire il tempo e distrarsi con messaggi vocali. Quindi, a voi che me li mandate (sapete chi siete), grazie! Mi fa sempre piacere, anche se spesso li ascolto con giorni di ritardo (e rispondo con altrettanto).
Volevo rimanere in città
Siamo ripartiti da Mammoth Lakes dopo ventiquattr’ore, forse un po’ meno. Non c’è stato il tempo di fare nulla che non fosse strettamente necessario – e cioè mangiare un po’ di più (e un po’ meglio), fare rifornimento di cibo, preparare il suddetto cibo, e fare un paio di giri in alcuni negozi di attrezzatura per recuperare ciò che troviamo solo lì – per esempio, il gas per il fornello.
Siamo riusciti a pranzare con Alex e Sarah, due compagni abbastanza fissi delle ultime settimane. Con Sarah – che adesso ha un trail name: “Pisa”, perché col suo zaino è un po’ sbilenca come la famosa torre – siamo addirittura partiti da Campo, ad aprile. Loro sarebbero rimasti in città per due giorni, mentre noi eravamo pronti a ripartire. In più, tra due giorni il trail passerà nello Yosemite National Park, e loro hanno intenzione di farci un giro e salire la celebre Half Dome, uno di quei muri di granito resi famosi dagli sfondi del desktop del Macintosh e paradiso della arrampicata (quella seria). Tutto ciò vuol dire che oggi potrebbe essere stata l’ultima volta insieme. Quattro giorni di distacco sono parecchi ormai, visto che riusciamo a camminare ben più di venti chilometri ogni giorno.
Lo so che rimanere in città significa spendere soldi (tanti, la California è un vero salasso), ma sarei rimasto volentieri un altro giorno per passare un po’ più di tempo insieme e, soprattutto, per rilassarmi. Non è tanto (o non solo) questione di riposare il corpo, ormai super allenato, ma di staccare da ciò che, a volte, mi sembra ormai un lavoro. Ti alzi, prepari le cose, e ti avvii. Poi, a fine giornata, finalmente stacchi: trovi un posto dove mangiare e dormire, ti prepari, ceni, pianifichi il giorno successivo, e te ne vai a dormire. L’unica differenza è che non sei mai nello stesso posto perché il tuo lavoro è camminare. Camminare ogni giorno. E non c’è weekend o festività che rompe questa routine se non i giorni in qualche città, piccola o grande che sia. Aggiungo anche la sensazione di stare correndo verso qualcosa o forse scappando da qualcos’altro che non so bene cosa sia. Sto certamente andando verso nord, lo si può notare anche dalle posizioni geografiche associate a queste pagine, ma il Canada è maledettamente lontano per credere che sia già alla nostra portata. E quindi perché sento di avere fretta? Forse per il tempo che sta cominciando a esaurirsi: sono a più di metà dei mei cinque mesi di aspettativa. Anche se è stata una giornata brevissima – neanche cinque miglia – oggi sono tornato sul trail soltanto perché con Fabio avevamo stabilito un programma, e io cerco di non mandare all’aria i programmi fatti soltanto per un ghiribizzo casuale. Però oggi non volevo ripartire. Volevo rimanere in città; volevo staccare dal lavoro, anche solo per un giorno.
Come gestire meglio la rabbia?
Il titolo suonerà ambizioso, ma riguarda solo un paio di ragionamenti che ho fatti oggi, dopo l’attraversamento di un fiume in cui credevo di riuscire a non bagnarmi le scarpe (e invece no).
Ripartito dal VVR1 con il traghetto delle nove – il trail lo si riprende dopo circa due chilometri e mezzo di salita dal Lago Edison – sapevo ci aspettava una giornata intensa; non lunga (24 chilometri) ma parecchio dislivello. Basta prenderla lentamente, al mio passo, mi sono detto. Il lago è intorno ai 2300 metri, mentre Silver Pass è a 3333 metri: una bella salita da fare in circa quattordici chilometri.
Dopo la prima ora di cammino, arriviamo a un torrente che è facilmente guadabile sul percorso del trail, ma un tentativo di superarlo senza bagnarsi lo vuoi fare sempre. Solo che il passaggio più semplice richiede di saltare su tre sassi, il secondo già parecchio lontano dal primo e non del tutto asciutto. Io non me la sento, ho paura di mancare il secondo salto e finire nel fiume. Non è certo la profondità dell’acqua che temo, ma un eventuale infortunio contro una roccia o qualcosa del genere. Così risalgo un po’ il torrente alla ricerca di un punto migliore, e purtroppo non faccio altro che mettermi in difficoltà tra rocce ancora più umide e il tronco di un albero caduto che, dal basso, pensavo fosse percorribile, invece è davvero troppo bagnato per pensare che le scarpe non scivolino. Frustrato, ritorno verso il trail e attraverso incazzato il fiume, bagnandomi i pantaloncini e persino gli occhiali. Tutto bagnato: calze, scarpe, ghette, e pure i tutori muscolari che uso a inizio giornata. Fabio mi ha aspettato e mi fa pure il favore di andare a prendermi un litro d’acqua – la giornata è molto calda e ho bevuta quasi tutta l’acqua dalla partenza. Mentre finisco di rimettere le scarpe dopo averle fatte asciugare un po’ (invano, essendo zuppe), riprendo a camminare e ripenso a ciò che è accaduto, alla mia reazione. Perché reagire così di fronte a un ostacolo? La rabbia è l’emozione naturale che scatta in queste situazioni e non c’è niente che possiamo o dovremmo fare. La proviamo proprio perché qualcosa ci impedisce di raggiungere un obiettivo o ottenere qualcosa. Ma lasciarla andare “a briglia sciolta” è stupido e inutile; è sempre combattere contro qualcosa che non reagirà ad alcun nostro comportamento. Al torrente non importa certo che noi abbiamo fallito nell’attraversarlo a piedi asciutti. Suona pure un po’ stupido scriverlo. E allora cosa fare? Come fare? Secondo me, dovremmo tornare a farci una delle domande fondamentali, una di quelle che ho imparato a chiedermi quasi ogni giorno durante questi mesi: date le circostanze – questa parte è importante perché significa accettare la realtà per ciò che è qui e ora – cosa posso fare o come mi posso comportare per ottenere ciò che vorrei? Tornando al fiume da guadare: se non posso (o non sono in grado) di attraversarlo senza bagnarmi, ciò che posso fare è indossare le scarpe e bagnarle, oppure usare i sandali/ciabatte (se le ho), o andare scalzo (posto che veda il fondo e non rischi di scivolare o la corrente non sia troppo forte). Questo è, non c’è altro. Lasciar scorrere la rabbia del momento senza fermarsi neanche un attimo a porsi quella domanda è stupido e, a volte, persino inutilmente rischioso.
Domani, 23 giugno, saremo a Mammoth Lakes, località assai frequentata dal turismo invernale. Quindi città, il che vuol dire tante cose (le solite): pianificheremo il prossimo pezzo e ci rifocilleremo come si deve. Non ci sarà molto tempo libero, ma quel poco che avremo sarà meglio goderselo. Credo faremo anche un piano di quanto tempo ci manca per concludere la Sierra; non saprei, così al volo, ma credo siamo a buon punto e con un buon ritmo per riuscire a completarla per i primi di luglio.